Il riparto di giurisdizione in materia di diritti fondamentali
L’atavica incomunicabilità tra “diritti soggettivi” e “poteri pubblici” si deve alla costruzione del sistema italiano di tutela giurisdizionale quale sistema a doppia giurisdizione, nel quale il riparto di giurisdizione appunto tra giudice ordinario e quello amministrativo è principalmente affidato alla consistenza di diritto soggettivo o di interesse legittimo della posizione soggettiva fatta valere e dedotta in giudizio dal cittadino.
Laddove venga in rilievo la lesione di un diritto soggettivo la giurisdizione appartiene al giudice ordinario, al contrario nel caso in cui emerga la lesione di un interesse legittimo, la giurisdizione spetta al giudice amministrativo.
Si tratta di una peculiarità tutta italiana, sconosciuta in altri ordinamenti e che affonda le sue radici nella l.2248/1865, all.E, la cd LAC, legge abolitrice del contenzioso amministrativo, la quale prevedeva il citato doppio binario .
Nel 1889 fu istituita la Quarta Sezione del Consiglio di Stato al fine di riequilibrare il sistema rimediale a favore del privato nei confronti della PA, ove il suo interesse potesse essere soddisfatto chiedendo l’annullamento di un provvedimento e accedendo alla reintegrazione anche reale della situazione giuridica lesa.
Ciò posto, fu ben chiaro che i confini della giurisdizione amministrativa coincidevano con il perimetro dell’interesse legittimo.
La strutturazione del riparto di giurisdizione transitò anche attraverso la legge istitutiva dei TAR, a tenore della quale spetta a questi la tutela di diritti e interessi di persone fisiche o giuridiche se non è attribuita alla autorità giudiziaria ordinaria o ad altri organi di giurisdizione.
Anche il Codice del processo amministrativo all’art.7 assegna rilievo centrale alle posizioni soggettive coinvolte nella controversia, come pure la nostra Carta costituzionale consacra all’art.103 co. I la tutela degli interessi legittimi e l’affida al Consiglio di Stato e agli organi di giustizia amministrativa.
Dunque, giova brevemente qualificare il diritto soggettivo come quella situazione soggettiva di colui il quale ne è portatore e non abbisogna dell’intermediazione della PA per la soddisfazione dell’interesse giuridico sotteso. Il conseguimento del connesso risultato è immediato e pieno, pertanto non è agevole ravvisare un diritto soggettivo nell’ambito di una relazione tra privato e PA.
Si è, invece, qualificato l’interesse legittimo come interesse indirettamente protetto, occasionalmente protetto, interesse solo processuale, comunque una situazione minore e solo riflessa.
Il dibattito moderno ha condotto alla definizione di una posizione di vantaggio in relazione a un bene della vita sottoposto all’esercizio del potere amministrativo e consistente nell’attribuzione a un soggetto di poteri idonei a influire sul corretto esercizio del potere pubblico stesso in modo da realizzare l’interesse predetto al bene.
Dunque, il criterio cardine in materia di riparto di giurisdizione è quello fondato sulla natura della posizione giuridica lesa dalla PA, ossia sulla causa petendi. È, peraltro, opportuno considerare come parametro complementare al primo sia l’afferenza al potere nel contenzioso amministrativo, come valorizzato dalla nota sentenza della Corte costituzionale n.204/2004 e recepito dal Codice del processo amministrativo al citato art.7.
Anche il Consiglio di Stato nel 2014 ha chiarito che il criterio della riconducibilità all’esercizio del potere opera all’interno della giurisdizione esclusiva come condizione in assenza della quale la controversia avente a oggetto diritti soggettivi nelle materia della detta giurisdizione esclusiva debba essere devoluta al giudice ordinario. L’art.7 cpa ha poi recepito tale principio, ferma la vigenza del generale criterio di riparto basato sulla dicotomia diritti soggettivi/interessi legittimi.
Giova , dunque, soffermarsi sulla ricostruzione delle regole empiriche volte a orientare l’interprete nella concreta individuazione dei casi in cui il privato può ritenersi leso in una situazione di interesse legittimo, come tale azionabile innanzi al giudice amministrativo.
In virtù dello storico “concordato giurisprudenziale” risalente agli anni ’30 del secolo scorso la Corte di Cassazione e il Consiglio di Stato chiarirono e condivisero l’ammissibilità di una doppia tutela innanzi agli organi di giurisdizione amministrativa e ordinaria, basato appunto sul criterio del petitum sostanziale.
Sarebbe stata la posizione giuridica oggetto del giudizio e non le deduzioni o le istanze di parte a rilevare ai fini della giurisdizione. Sarebbe stato compito del giudice individuare la stessa sulla base dei fatti allegati e del rapporto giuridico sotteso e non la prospettazione delle parti.
Ciò posto, un primo criterio ruota intorno alla contrapposizione attività discrezionale/attività vincolata.
Il privato, dunque, sarebbe titolare di un interesse legittimo qualora si imbatta in un’attività discrezionale della PA, di un diritto soggettivo, viceversa, a fronte di un’attività vincolata.
La tesi suesposta, tuttavia, è stata doppiamente criticata. In primis, perché la natura discrezionale non sempre implica una degradazione della posizione del privato e la qualificazione in termini di interesse legittimo. È il caso per esempio in cui la PA dispone di una discrezionalità tecnica, e dunque, non è chiamata a formulare alcuna comparazione di interessi o a esercitare un potere di scelta che comporti una sicura degradazione della posizione del privato.
Inoltre, non sempre a fronte dell’esercizio di un’attività vincolata vi è un diritto in capo al privato: se il vincolo all’azione amministrativa è posto nell’interesse pubblico la pretesa non è azionabile innanzi al giudice ordinario.
Altro criterio è stato elaborato dal Guicciardi e seguito non di rado dalla giurisprudenza. Esso consiste nella distinzione tra norme di azione e norme di relazione.
Le prime disciplinano l’azione della PA, in quanto si occupano solo in via indiretta degli interessi dei destinatari; le seconde regolano l’azione della PA in relazioni, appunto, paritarie rispetto ai privati. Ne consegue che le prime assumono la consistenza di interessi legittimi e sono, dunque, tutelabili innanzi alla giustizia amministrativa.
Le posizione giuridiche lese dalla violazione di norme di relazione, invece, hanno la consistenza di diritti soggettivi e radicano la giurisdizione del giudice ordinario.
In senso critico si è ribattuto che per l’interprete non sempre è agevole qualificare esattamente la posizione giuridica dedotta in giudizio. Ciò nonostante si tratta di un criterio non di rado seguito in giurisprudenza.
Un ulteriore metodo discretivo consiste nella contrapposizione fra atti di imperio e atti di gestione. I primi condurranno a un interesse legittimo, i secondi a un diritto soggettivo.
Si tratta di una posizione non sostenibile nella sua perentorietà, in quanto è insufficiente da sola la natura pubblica del potere esercitato a degradare il diritto soggettivo. Occorrerebbe, infatti, verificare se il potere sia stato esercitato sulla base di un’effettiva norma attributiva e nei limiti della stessa.
La teoria che ha riscosso maggior seguito è quella dei “diritti affievolibili” basata sull’assenza del potere o soltanto sul suo cattivo uso.
Prende le mosse dalla nota sentenza Ferrari del 1949, e poggia sull’assunto secondo il quale l’affievolimento o la degradazione della posizione giuridica in interesse legittimo si verifica in conseguenza all’azione amministrativa materializzatasi in un atto amministrativo anche se illegittimo e annullabile. Dunque, a causa dell’uso scorretto del potere pubblico. Sicchè, la relativa controversia verrà incardinata presso il giudice amministrativo.
Sussisterà, invece, la giurisdizione del giudice ordinario nei casi in cui il privato neghi l’esistenza del potere.
Più in generale può dirsi assente il potere in astratto laddove manchi del tutto una norma attributiva del detto potere, il cd straripamento di potere, o la norma lo attribuisca a un organo appartenente ad altro plesso della PA, ossia incompetenza assoluta.
Sono, dunque, ricomprese due ipotesi, le quali comportano che l’atto, inesistente o nullo, non provochi alcun effetto degradatorio della posizione giuridica del diritto del singolo.
Si supera, perciò, l’impostazione dettata dalla dicotomia atti di imperio/atti di gestione, per valorizzare la nozione di carenza di potere e distinguere le ipotesi di carenza in astratto, laddove manchi del tutto una norma attributiva del potere in questione, e carenza in concreto. In quest’ultimo caso difetta o è viziato un presupposto per il suo esercizio in concreto, appunto.
Sul tema si registra uno storico contrasto tra le nostre più alte magistrature. La Cassazione dopo le iniziali perplessità ha sostenuto che se difetta un presupposto per l’esercizio del potere pubblico, la posizione giuridica del privato non subisce alcuna deminutio.
Ciò implica la necessità di individuare i criteri discretivi tra presupposti per affermare l’esistenza del potere e requisiti per il corretto esercizio.
I primi saranno certamente contenuti e disciplinati da norme di rango primario, fermi i principi di riserva di legge e di tipicità e nominatività degli atti amministrativi.
Spesse volte, poi, la giurisprudenza ha fatto ricorso al concetto di “gravità della violazione” in cui è incorsa la PA . Invero, è di palmare evidenza come si tratti di un criterio affatto labile ed empirico, se non addirittura manipolabile.
I rilievi critici nei confronti dell’indirizzo della Cassazione rimarcano la difficoltà definitoria dei presupposti di esistenza e requisiti di legittimità. Per questo il Consiglio di Stato ravvisa che le ipoetesi di carenza di potere in concreto siano sempre casi di cattivo uso del potere pubblico.
Si tratta di atti adottati in violazione alla legge, sicchè conservano la loro capacità degradato ria, pertanto daranno luogo a meri vizi di legittimità dell’azione amministrativa.
Alla luce di quanto argomentato, occorre dare atto della decennale tendenza giurisprudenziale tesa a escludere che la PA disponga di potestà pubblicistiche allorchè intervenga, sacrificandole, su posizioni di diritto soggettivo assolute, insuscettibili, quindi, di degradazione.
Si tratta di un indirizzo non sempre condiviso nella sua assolutezza, che prende le mosse da una sentenza della Cassazione del 1979, resa in tema di diritto alla salute.
La Suprema Corte teorizzò l’esistenza di diritti fondamentali, assoluti, inaffievolibili dinnanzi a un provvedimento amministrativo. Il contrasto con essi avrebbe dato luogo alla declaratoria di nullità del provvedimento stesso, in quanto emanato in difetto assoluto di attribuzione. La giurisdizione si sarebbe radicata in capo al G.O., giudice naturale dei diritti soggettivi.
La giurisprudenza ha osservato che nelle fattispecie di diritti inaffievolibili la PA non dispone nè del potere di affievolire, appunto, un diritto incomprimibile, né di pregiudicarlo indirettamente.
Ciò condiziona non solo la scelta del giudice ma anche le tecniche di tutela azionabile. Il giudice ordinario, infatti, non è soggetto ai limiti degli artt. 4 e 5 della LAC, ovvero il divieto di annullare o revocare un atto amministrativo, di ordinare un facere specifico o un pati con incidenza diretta sull’attuazione di provvedimenti amministrativi.
Non è immaginabile una tutela minore a diritti che la Carta costituzionale intende proteggere in modo assoluto. Quindi, il G.O. potrà e dovrà emanare ogni provvedimento utile per tutelare pienamente questi diritti resistenti a oltranza, ivi comprese sentenze che incidano su atti amministrativi o condannino la PA a un facere pubblicistico.
Pertanto, le diverse ipotesi di giurisdizione ordinaria in tema di tutela del trattamento dei dati personali, obiezione di coscienza e immigrazione non provvedono a delineare nuove aree di giurisdizione esclusiva del G.O., ma ad applicare il criterio generale della causa petendi.
A parte le citate ipotesi normativamente previste, la teoria dei diritti intangibili è stata applicata in tema di diritto alla salute o meglio all’ambiente salubre, e nel campo dei diritti primari come la libertà di coscienza e di religione.
In particolar modo, sul diritto alla salute è stato costruito il paradigma della teoria della non degradabilità dei diritti soggettivi fondamentali. Secondo parte della giurisprudenza il diritto in questione sarebbe sempre non affievolibile e, dunque, soggetto alla cognizione del G.O.
Per altro orientamento, occorre distinguere il diritto alla salute di natura oppositiva alle lesioni alla integrità psicofisica da quello pretensivo alle prestazioni a carico del Servizio Sanitario Nazionale diretto a perseguire, cioè, un miglioramento delle proprie condizioni. Nel primo caso il privato vanterebbe un diritto pieno e tutelabile innanzi al GO. Nel secondo no, ma condizionato all’attuazione che il legislatore ne dà attraverso il bilanciamento con altri interessi tutelati da quel diritto. Permane, dunque, in capo alla PA il potere discrezionale di valutare e scegliere tra interessi contrapposti; sicchè, si radicherebbe la giurisdizione del GA sulle relative controversie.
Infine, un indirizzo intermedio concorda con il secondo sulla non degradabilità del diritto alla salute nella sua componente oppositiva, mentre distingue ulteriormente quella pretensiva. Solo il diritto alla salute in situazioni di rischio mortale o grave sofferenza presenterebbe una sorta di nucleo intangibile del diritto a non morire, dunque attratto presso la giurisdizione del giudice dei diritti.
Parte della dottrina ha mosso una serie di contestazioni alla teoria del non affievolimento dei diritti fondamentali. In primis, appare logicamente necessario operare una sintesi, un confronto tra diritti fondamentali e altri diritti e interessi pubblici e privati. Ogni diritto seppur di rilievo primario incontra limiti e contemperamenti.
La costituzione qualifica numerosi diritti come fondamentali, e comunque attribuisce al legislatore e alla PA il compito di trovare soluzioni concrete che meglio bilancino la tutela del diritto e il perseguimento del fine pubblico. Non è concepibile in una società pluralistica come la nostra una netta contrapposizione tra il carattere fondamentale del diritto e il potere discrezionale della PA.
Per esempio, il diritto alla salute si scontra con l’esigenza di contenimento della spesa finanziaria a carico del SSN.
La costruzione di impianti di energia elettrica produce rischi per la salute individuale e collettiva ma questa è senza dubbio necessaria allo sviluppo e al benessere generali. Così come gli impianti di telefonia mobile, la cui ubicazione è autorizzata, si palese come un pericolo a causa delle onde elettromagnetiche che vengono prodotte.
Ai comuni e alle regioni spetta il compito di individuare le soluzioni che comportino il minor sacrificio possibile del diritto alla salute e il massimo soddisfacimento dell’interesse pubblico.
Un secondo aspetto critico è di respiro europeo e fa leva per il tramite dell’art. 117 Cost. sulle posizioni soggettive ritenute fondamentali dalla CEDU. Infatti, questa comprende anche diritti dal contenuto patrimoniale, come il diritto alla proprietà privata, non vulnerabile se non a fronte di un indennizzo pari al valore del bene. Applicando la teoria in questione sarebbe impedito l’esercizio di poteri pubblicistici ogni volta che la PA si trovi di fronte al diritto di proprietà predetto.
Infine, è venuta meno l’esigenza che nel passato aveva condotto la giurisprudenza a elaborare la teoria dei diritti inaffievolibili; il dogma della irrisarcibilità degli interessi legittimi è ormai caduto grazie alla sentenza della Cassazione a Sezioni unite n.500/99. Non sussiste più la necessità di creare la categoria dei diritti non degradabili onde affidarli alla cognizione del GO al fine di tutelarli in maniera piena ed effettiva.
Anzi, la tutela del G.A. potrebbe essere ancor più intensa sotto il profilo degli effetti del giudicato amministrativo, conformativi, e grazie allo specifico strumento dell’ottemperanza.
In conclusione alle suesposte obiezioni, appare più corretto ritenere che il criterio del riparto attenga non tanto alla natura inviolabile dei diritti quanto all’esistenza o meno di una disposizione legislativa che stabilisca limiti e condizioni dell’interposizione della PA. Qualora questa abbia rispettato le dette condizioni, non si potrà configurare carenza di potere; l’atto produrrà l’effetto degradatorio che fa tramutare il diritto soggettivo in un interesse legittimo e radicare la giurisdizione del giudice amministrativo.
Di recente si può segnare un ritorno alla teoria della non degradabilità di diritti primari in tema di violazione delle norme poste a tutela dello straniero, che vietano tutte le forme di discriminazione razziale, etnica, religiosa. Ebbene, la Cassazione ha stabilito che il diritto dello straniero a “resistere”al potere pubblico rappresenta un’area di libertà inviolabile rispetto a qualsiasi tipo di violazione posta da soggetti pubblici o privati.
Inoltre, in tema di bonus bebè, deliberati da un provvedimento comunale che escludeva dal novero dei beneficiari i soggetti non italiani e non residenti, la Cassazione ha affermato la giurisdizione del GO, a nulla rilevando che gli atti o comportamenti discriminatori fossero derivati dall’emanazione di un provvedimento amministrativo.
Da ultimo si segnala la posizione delle Sezioni Unite di Cassazione in tema di respingimenti differiti degli stranieri. È stata affermata in detta decisione, ancora una volta, la giurisdizione ordinaria, in quanto coinvolti i diritti fondamentali della persona.
Per concludere appare opportuno soffermarsi su alcune tipologie di controversi devolute alla giurisdizione esclusiva del GA da singole disposizioni legislative, posto che la sentenza della Corte Costituzionale n.204/2004 ha preteso l’inerenza al potere della questione devoluta al GA.
Si può, dunque, sostenere che non c’è potere perché c’è diritto? In particolar modo, rilevano due ipotesi di giurisdizione esclusiva, quella in tema di pubblici servizi e quella afferente le situazioni di emergenza dichiarate ex lege 225/92. Ebbene, il legislatore all’art. 133 co. I lett. c) e p) le affida entrambe al GA. Rilevante, quindi, è l’inciso “quand’anche relative a diritti costituzionalmente tutelati” contenuto nel richiamato art. 133 lett p) cpa.
Le SSUU, nonostante ciò, nel 2017 hanno ritenuto che le controversie relative alle concrete modalità di esercizio del ciclo produttivo inerente la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti ricadano nella giurisdizione ordinaria proprio in virtù della pericolosità per la salute o di altri diritti fondamentali della persona e in quanto, nel caso specifico, si trattava di un’ordinaria attività di impresa, estranea dunque a pubblici poteri.
Una delicata questione di giurisdizione si è posta anche per le controversie azionate da chi non ha ottenuto il rimborso delle spese sanitarie sostenute per il ricovero in strutture sanitarie altamente specializzate situate all’estero, in quanto l’assoluta urgenza dello stesso non abbia consentito la formulazione dell’istanza di autorizzazione e l’attivazione del potere della PA. In detti casi si è sostenuta la giurisdizione ordinaria sul rilievo rappresentato dal pericolo di vita dell’interessato, sulla possibilità di aggravamento della patologia e sul diritto primario e fondamentale costituzionalmente garantito dall’art. 32 Cost. Questo, bilanciato con altri interessi, come le risorse finanziarie disponibili del SSN, è valso al radicamento della giurisdizione del giudice ordinario.
Più problematica è apparsa l’ipotesi di richiesta di autorizzazione però disattesa da parte della PA sanitaria. Talora, si è affermato un potere autorizzatorio dell’amministrazione nel valutare esigenze sanitarie e disponibilità finanziarie, sì che il richiedente è risultato titolare di un mero interesse legittimo.
In altre pronunce, invece, si è sostenuto che il dover apprezzare da parte della PA la gravità e l’urgenza della situazione sanitaria, eventualmente secondo criteri di discrezionalità tecnica, non valga ad alterare la natura di diritto soggettivo del privato nel senso di affievolirlo.
Dunque, la particolarità del caso clinico, la necessità di apprestare tempestivi e specifici interventi specialistici o procedure tecniche non praticate in Italia sono stati usati come criteri escludenti l’esercizio di alcun potere di supremazia della PA. Ciò ha comportato l’affermazione della giurisdizione ordinaria, senza che assumesse rilievo l’esistenza di un provvedimento amministrativo.
Infine, un’ulteriore tematica attiene al diritto dell’alunno disabile a godere del sostegno scolastico, tutelato ai sensi dell’art.38 Cost.
Ebbene, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nel 2016 ha stabilito che sussiste la giurisdizione esclusiva del GA qualora il PEI, il piano educativo individuale, non fosse stato ancora predisposto, in quanto, se pur in presenza di un diritto fondamentale, il suo concreto esercizio implicherebbe l’espletamento di poteri pubblicistici, non solo a garanzia dell’integrità di questo diritto primario ma anche in ragione di contestuali ed equivalenti tutele di altri interessi costituzionali. Qualora le controversie afferissero all’attuazione del PEI la giurisdizione sarebbe, invece, del giudice ordinario, in quanto la PA non eserciterebbe alcun potere.
In conclusione, si ritiene quasi concordemente di aderire alla lettera della previsione di cui all’art. 133 co I lett c) cpa, che diversamente perderebbe qualsiasi apprezzabile effetto. È indubbio che i cittadini vantino diritti costituzionalmente garantiti, ma nelle materie della giurisdizione esclusiva del GA è quest’ultimo competente a conoscere dell’eventuale compromissione dei diritti fondamentali, non essendovi principio o norma che li riservi al GO, escludendo il primo giudice.
Inoltre, il GA in sede esclusiva dispone di tutti gli strumenti, cautelari e di merito, per offrire piena tutela ai diritti soggettivi, anche costituzionalmente garantiti, coinvolti nell’esercizio della funzione amministrativa.