Sindacato sull’eccesso di potere e principio di proporzionalità
L’eccesso di potere è stato definito dalla dottrina più autorevole come il vizio proprio dell’attività amministrativa. Insieme alla violazione di legge e all’incompetenza, esso rientra nella categoria dei vizi di legittimità degli atti amministrativi che comportano l’annullabilità degli stessi come regola generale se sussistono anche tre precisi requisiti ex art. 21 octies l.241/90, dei quali di seguito si argomenterà.
La violazione di legge comporta il semplice riscontro della difformità tra il paradigma legale e la fattispecie concreta. Può consistere nella mancata applicazione della legge, nella falsa applicazione della stessa o in altre ipotesi residuali sottratte alla figura dell’eccesso di potere.
Nel primo caso la PA suppone esistenti norme in realtà non presenti o non applica norme vigenti, o ancora non interpreta una disposizione nel senso suo proprio. Nel secondo caso la PA applica a una ipotesi non contemplata una norma correttamente interpretata.
L’incompetenza è il vizio della non corretta distribuzione della funzione pubblica. Quella relativa, l’unica che rileva quale vizio di legittimità, si verifica quando il soggetto che ha adottato l’atto appartiene al medesimo plesso organizzatorio di cui fa parte l’organo invero competente in base alla legge.
In mancanza di una definizione normativa è stato compito di giurisprudenza e dottrina dare corpo a un concetto vago e polisenso come l’eccesso di potere.
La sentenze più risalenti lo hanno descritto come il vizio dell’atto che esorbitasse dai limiti esterni del potere amministrativo, alla stregua dello straripamento di potere.
Quelle più recenti partono dalla valorizzazione del principio di legalità, come conferimento all’amministrazione del potere di curare interessi pubblici determinati, per giungere a una definizione che consenta un sindacato sulla discrezionalità amministrativa. Pertanto, l’eccesso di potere si configura quando la PA esercita il suo potere per finalità diverse da quelle stabilite dalla norma attributiva di quel potere.
Sono diverse le tesi emerse sulla sua natura giuridica, una prima in chiave civilistica riqualifica il vizio in esame come vizio della volontà, in analogia con l’omonima causa di annullabilità del negozio giuridico. È evidente come la connotazione psichica del soggetto che ha materialmente adottato l’atto non rilevi ai fini pubblicistici.
Una seconda si fonda sull’idea del vizio della causa in termini di sviamento del potere concretamente esercitato dal perseguimento della causa stessa. Tuttavia, le difficoltà di definire la causa del provvedimento senza sindacare sul merito amministrativo attraverso il vizio in esame sono serie e insuperabili.
Infine, l’eccesso di potere è stato letto e interpretato come vizio della funzione, della globalità dell’azione amministrativa e di tutti gli interessi in gioco coinvolti nella sequenza procedimentale. Questa teoria ha il pregio di fotografare i recenti mutamenti nell’ambito del processo amministrativo, ampliando l’oggetto dell’accertamento giudiziario dall’atto alla funzione.
Il codice del processo amministrativo ha introdotto il principio della pluralità delle azioni, ha potenziato i mezzi istruttori consentendo l’accesso al fatto; il sindacato del GA sul potere pubblico è diventato più penetrante, ma l’esigenza di concludere il processo con una sentenza satisfattiva della pretesa azionata non implica l’invasione delle sfere di attribuzioni spettanti alla PA.
In presenza di attività discrezionale la valutazione comparativa degli interessi pubblici e di quelli privati spetta alla autorità pubblica. Sicchè il giudice amministrativo al di fuori della giurisdizione estesa al merito può svolgere il suo controllo allorquando l’attività amministrativa debordi nell’eccesso di potere.
Dunque, il vizio in esame costituisce il vizio dell’attività discrezionale; attraverso il riscontro giudiziale il sindacato del giudice può spingersi ai confini dell’area riservata alla PA e valutare se gli interessi in gioco siano stati ponderati seguendo il fine indicato dalla legge.
Non un fine pubblico, diverso da quello specifico perseguito dalla norma, né utilizzando poteri diversi da quelli previsti dalla stessa norma.
Al contrario è irrilevante che vengano perseguiti fini ulteriori o secondari che non escludono il raggiungimento di quello imposto dal legislatore. In tali casi non vi è sviamento di potere.
Pertanto, il vizio di eccesso di potere è tipico dell’attività discrezionale; alcuni autori, però, includono nell’ambito di operatività di questo vizio anche i provvedimenti contenenti profili di discrezionalità tecnica o non interamente vincolati, o connotati da altissima discrezionalità. In tale ultima ipotesi l’eccesso di potere si configura in presenza di macroscopiche forme illogicità e irrazionalità.
Quindi, preso atto delle difficoltà di dimostrare in giudizio l’effettiva esistenza di una deviazione dal fine tipico, la giurisprudenza amministrativa ha dovuto elaborare numerose figure sintomatiche, quali la motivazione insufficiente, la contraddittorietà interna ed esterna, la disparità di trattamento, il travisamento dei fatti, la violazione di circolari, di norme interne o della prassi amministrativa, l’illogicità e l’ingiustizia grave e manifesta.
I difetti motivazionali consistono nel carattere insufficiente, incongruo, contraddittorio della motivazione stessa, che però esiste. Non si configurerà, quindi, la violazione dell’art. 3 l.241/90, che sancisce l’obbligo per la PA di esplicitare le ragioni di fatto e di diritto poste a base della sua decisione, e non ne seguirà senz’altro l’annullamento dell’atto. Pertanto, l’inquadramento nell’una o nell’altra categoria non è di secondaria importanza.
La contraddittorietà riguarda il contrasto insanabile fra più manifestazioni di volontà della PA, tale da far dubitare su quale sia quella effettiva. Può essere intrinseca, e riguardare le diverse parti di un atto, o estrinseca e afferire atti diversi ma relativi a un medesimo oggetto.
La disparità di trattamento postula più atti, esercizio del medesimo potere, che riguardino soggetti diversi ma posti nella stessa situazione, o in una molto simile. Il trattamento discriminatorio, quindi non è in alcun modo giustificabile, in quanto l’interdipendenza valutativa che lega le varie situazioni fa sì che gli atti utilizzati in una situazione vengano presi come metro di paragone per le altre. Il discorso non vale qualora gli atti siano illegittimi: il privato non potrà invocarli per pretendere ulteriori provvedimenti.
Il travisamento dei fatti si configura quando un provvedimento è adottato sulla base di fatti in realtà inesistenti o sull’inesistenza di fatti al contrario esistenti. Parte della dottrina lo riconduce all’ipotesi di violazione di legge; altra, invece, evidenzia come tale conclusione sia corretta solo se la norma che si assume violata contenga un elenco di situazioni di fatto che costituiscono la base di un provvedimento.
Un’ulteriore ipotesi di eccesso di potere si presenta quando vengono violate delle circolari legittime, intese come norme interne, emanate da un’autorità gerarchicamente superiore a quella che ha adottato l’atto viziato.
Infine, l’illogicità manifesta si ha in caso di insanabile contrasto logico sussistente all’interno dell’atto amministrativo, quando la stessa sia palesemente incoerente rispetto alla concreta situazione di fatto. Le predette inizialmente ritenute afferenti allo sviamento di potere, hanno acquisito nella prassi giudiziaria una loro autonomia poiché ricondotte ai principi generali dell’azione amministrativa, come quello della logicità, della coerenza, della completezza , della ragionevolezza, e in particolare al principio della proporzionalità, del quale in seguito si argomenterà, di matrice comunitaria ma conseguenza del penultimo principio enunciato.
Le cd. figure sintomatiche dell’eccesso di potere, quindi, costituiscono un elenco aperto, grazie al quale il giudice amministrativo di volta in volta stabilirà la tipologia più confacente al caso concreto.
Per alcuni autori hanno natura sostanziale e rappresentano altrettante ipotesi di eccesso di potere. Alla PA, perciò, non sarebbe concesso dimostrare la loro assenza. Per altri sono semplici indizi di uno sviamento che non escluderebbe la prova contraria fornita dalla PA. stessa. Il giudice, quindi, non potrà dichiarare immediatamente illegittimo il provvedimento, ma dovrà in concreto accertare la difformità dello stesso dalle finalità imposte dalla legge. Si tratterebbe di manifestazioni tipiche dalle quali desumere per deduzione logica la sussistenza potenziale di un vizio.
La l.241/90 ha fatto confluire alcune figure in esame nel vizio della violazione di legge, in quanto ha codificato una serie di obblighi prima non scritti, ma la cui violazione era già ritenuta rilevante in via pretoria quale sintomo dell’incompletezza o dell’incoerenza dello svolgimento dell’attività amministrativa. Per altre resta controversa la esatta collocazione; tuttavia, il problema è di scarsa rilevanza visto che comunque la conseguenza giuridica sarà l’annullamento dell’atto in questione ai sensi dell’art. 21 octies, co. I..
La predetta serie di indici è, dunque, desumibile dai principi di logicità, di ragionevolezza e quindi di proporzionalità, di coerenza e di completezza dell’iter logico. I predetti fungono da bussola al fine di orientare l’interprete nell’indagine sulla sussistenza del vizio di eccesso di potere.
Il fine da perseguire è un limite al potere amministrativo, ma non l’unico. Esistono anche limiti interni che discendono direttamente dai principi superiori, la violazione dei quali comporta che l’attività discrezionale della PA non sia stata correttamente esercitata.
Il principio di proporzionalità, appunto come anticipato, funge da limite interno al potere amministrativo, per evitare che ecceda i suoi contorni. Di matrice comunitaria, è già presente nel nostro ordinamento come direttamente derivato dal principio nazionale della ragionevolezza.
Al vizio di eccesso di eccesso fa, dunque, da contraltare la giusta misura del potere, ossia il principio di proporzionalità.
Infatti, già previsto nell’art. 5 del Trattato CE, ora è confluito nell’art. 5 del Trattato UE, come modificato dal Trattato di Lisbona al paragrafo 4. Di particolare rilievo anche il Protocollo n.2 sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità, allegato al Trattato UE.
Si ricorda, inoltre, come l’art.1 l.241/90, modificato dalla riforma del 2005, richiami espressamente l’applicazione dei principi dell’ordinamento comunitario.
Il principio in parola, si ribadisce, rappresenta la giusta misura del potere pubblico, in quanto vieta la compressione diversa e ultronea della sfera giuridica del privato in rapporto a quanto necessario per raggiungere lo scopo fissato dal legislatore.
Caduto in disuso verso la fine degli anni ’70, fu ripreso per cassare una sanzione comminata da un regolamento comunitario ritenuta eccessiva allo scopo della sana gestione amministrativa. Applicato sub species del principio di necessarietà, segue logicamente il giudizio sulla idoneità della direzione assunta dal potere discrezionale.
La proporzionalità impone, dunque, un’indagine trifasica, che si articola nell’accertamento dell’idoneità della misura allo scopo da raggiungere; della necessità della misura, intesa come assenza di altro mezzo idoneo, della proporzionalità con il fine, riconoscendo preferenza alla misura che più permette il raggiungimento dello scopo perseguito dalla norma.
Dunque, il principio in oggetto rileva quale elemento sintomatico della correttezza dell’esercizio del potere discrezionale in relazione all’effettivo bilanciamento degli interessi. Pertanto, non è da considerare come un canone rigido e immodificabile. Si configura come regola che implica la flessibilità dell’azione amministrativa applicata al caso concreto.
Come misura del potere deve essere appunto giusta, dettata dal principio di ragionevolezza, del quale attua oggettivamente la scala di valori.
Frequenti le applicazioni in tema di gare e sanzioni.
L’art. 4 del nuovo codice dei contratti pubblici pesa i requisiti di partecipazione e i criteri di valutazione delle offerte espressamente nel rispetto del parametro della proporzionalità. Pertanto, nelle gare di appalto si impone il rispetto dell’equilibrio tra obiettivi perseguiti e mezzi utilizzati con il minor sacrificio possibile per gli interessi dei privati. La stazione appaltante, quindi, non può imporre con atti normativi o a amministrativi obblighi e restrizioni in misura superiore cioè sproporzionata a quella strettamente necessaria nel pubblico interesse per il raggiungimento dello scopo.
Parimenti in tema di sanzioni, disciplinari, come quelle comminate dalla Agcom, la PA deve adottare la soluzione idonea e adeguata che non appaia sproporzionata.
Quanto poi all’applicazione dell’art. 39 TULPS, allorquando un soggetto sia ritenuto capace di abusare delle armi, è concessa la facoltà al Prefetto di vietarne la detenzione seppur legittimamente denunciate. Il margine di discrezionalità è davvero ampio, ma deve bilanciarsi e ricondursi all’interno della non manifesta irragionevolezza. Il porto d’armi non è un diritto assoluto e va contrapposto alla sicurezza e alla incolumità pubblica, oltre che all’esigenza di evitare una diffusione incontrollata di armi presso i privati.
In questo caso la giurisprudenza ha ritenuto che il legislatore ben può decidere di tutelare gli interessi pubblici e privati affinando requisiti stringenti e facoltizzando il Prefetto di un potere di divieto di detenzione anche laddove ricorrano i requisiti oggettivi richiesti. Infatti, ben può accadere che venga rigettata la richiesta di rinnovo di licenza venatoria a un soggetto che abbia ottenuto la riabilitazione ex art. 179 c.p., nonostante, quindi, siano decorsi almeno tre anni dal giorno dell’esecuzione della pena e il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta.
La tollerabilità della restrizione imposta al privato e l’adeguatezza del mezzo adoperato rendono legittimo l’esercizio del potere, tenuto conto che la licenza di porto d’armi nel caso di specie veniva richiesta per un’attività ludica.
Come anticipato, l’art. 21 octies, co. I, L.241/90 prevede l’annullamento del provvedimento viziato da eccesso di potere, violativo di una norma di legge o emanato da un organo relativamente incompetente. A differenza delle ipotesi tassative di nullità, l’annullamento è un rimedio di carattere generale per i vizi di legittimità dell’atto.
L’art. 21 octies della menzionata legge al comma II salva dall’annullamento i provvedimenti adottati in violazione di norme sul procedimento o sulla forma, il cui contenuto, però, non sarebbe potuto esser diverso da quello adottato, in considerazione della natura vincolata del provvedimento stesso.
Nel caso specifico di violazione dell’art. 7 della l.241/90, poi, il provvedimento non è annullabile se la prova dell’indifferenza del vizio proviene dalla PA.
Orbene, il comma 2 dà applicazione al predetto principio di proporzionalità perché consente al giudice di verificare l’efficienza causale del vizio, la sua reale incidenza sull’assetto degli interessi. Sancisce il principio di prevalenza della correttezza sostanziale sulla illegittimità formale. Assegna per la prima volta al giudice un potere di verifica della lesione dell’interesse sostanziale del privato.
Ovviamente ha un rilevante impatto sistemico, innanzitutto perché limita l’area dell’annullabilità, in secondo luogo perché sposta il focus dalla illegittimità formale alla lesività sostanziale del provvedimento. Fornisce, quindi, un ulteriore stimolo alla trasformazione dell’oggetto del giudizio amministrativo dall’atto al rapporto.
La giurisprudenza si era posta da tempo il problema di evitare l’esito demolitorio del giudizio qualora non vi fossero state concrete incisioni della correttezza dell’operato della PA., né compressioni della posizione dei privati.
Un’interpretazione rigida dell’istituto dell’annullamento avrebbe sacrificato le esigenze di celerità e stabilità della PA., rischiando di diventare un rimedio eccessivo, non proporzionale, appunto, alla situazione concreta. Dunque, si è preferita una interpretazione teleologica delle norme sul procedimento, in applicazione dei principi generali di conservazione degli atti giuridici e di strumentalità delle forme.
L’orientamento antiformalista ha così ritenuto di valorizzare l’interesse ad agire del privato e l’utilità sostanziale dello stesso. Le regole formali devono esser lette alla luce dello scopo della tutela che le ispira. Quindi, un provvedimento non può ritenersi illegittimo se adottato in spregio alle suddette formalità, ove lo scopo della norma violata sia stato raggiunto attraverso uno strumento idoneo ma diverso da quello prescritto dalla norma.
Ovviamente il superiore assunto postula che la forma non sia vincolata, ossia indefettibile per legge.
Tuttavia, non sono mancate critiche all’orientamento antiformalista. Queste hanno osservato come per effetto dell’applicazione del principio del raggiungimento del risultato sarebbero diventate irrilevanti le regole dell’agire amministrativo che il legislatore aveva posto a garanzia del privato e della stessa PA. Dequotando gli obblighi formali, si sarebbe persa la loro effettiva cogenza.
Inoltre, si sarebbe trasferito sul giudice il potere di verificare se l’onere formale avesse inciso sulla posizione sostanziale del privato, trasferendo nel processo il confronto dialettico tra parte privata e parte pubblica proprio della sede procedimentale.
Infine, si sarebbe investita l’autorità giudiziaria del potere di effettuare valutazioni anche sul merito dell’azione amministrativa.
Ad ogni buon conto, seppur non ancora sopito il dibattito sul tema, la riforma del 2005 ha sposato la tesi antiformalista sulla scorta di esperienze legislative d’oltralpe.
Dunque, i presupposti dettati perché l’atto non sia annullato, in quanto ciò sarebbe eccessivo, ossia sproporzionato secondo la valutazione del legislatore, sono tre e sono precisi: la violazione di norme sulla forma degli atti o sul procedimento, la natura vincolata di questo, che sia palese che il contenuto non sarebbe stato diverso da quello adottato in assenza del vizio.
Pertanto, non tutte le violazioni delle norme formali e procedimentali conducono alla regola della non annullabilità. Se la forma garantisce un interesse particolare o un diritto, questa è insurrogabile.
Quanto poi al tipo di vincolo preso in considerazione dal citato comma 2, si sono fronteggiate due teorie: la prima ritiene che il detto vincolo debba essere assoluto, cioè riguardare l’an, il quid, il quando e il destinatario.
La seconda sostiene che il giudice possa accertare l’assenza di alternative di diritto attraverso l’assunzione di prove, andando oltre le produzioni documentali delle parti. Potrebbe disporre una consulenza tecnica accedendo direttamente ai fatti, ma nel rispetto della separazione dei poteri, solo ai fatti “semplici”.
Valorizzando la ratio della disposizione, ossia quella di preservare la sfera di discrezionalità della PA, si afferma che la norma può trovare applicazione anche nei casi in cui, pur essendo originariamente discrezionale il potere esercitato, la PA abbia consumato la propria discrezionalità. Ciò in quanto a monte c’è già stata la comparazione di interessi che a valle il giudice non potrà incidere con il suo sindacato.
Infine, il secondo periodo del secondo comma dell’art.28 octies riguarda la violazione di una specifica norma procedimentale, ossia l’art. 7 l.241/90, che contiene l’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento. Onde evitare di far gravare sulla PA una probatio diabolica il privato non può solo dolersi della mancata comunicazione, deve allegare anche gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento se avesse ricevuto la detta comunicazione. Solo dopo l’amministrazione deve dimostrare che il provvedimento non sarebbe mutato anche se quegli elementi fossero stati valutati. La portata della norma sembra abbracciare anche l’attività discrezionale della PA, in quanto vi è un rapporto di specialità con il primo periodo del secondo comma in oggetto.
Qualora il giudice definisca il ricorso ai sensi dell’art.21 octies, II co., può adottare differenti pronunce in base all’orientamento adottato.
Infatti, la sentenza rigetterà nel merito il ricorso, se si muove dal presupposto della natura sostanziale della disposizione, che individua quale oggetto del giudizio l’accertamento della illegittimità dell’atto ai fini del suo annullamento. Il giudice verificherà la fondatezza della pretesa del ricorrente, e, ove riscontri l’assenza di alternative al provvedimento, rigetterà il ricorso definendolo nel merito .
Un altro indirizzo conduce ad una sentenza dichiarativa della presenza del vizio, la quale concluderà per la non accoglibilità del ricorso. Tuttavia, la dottrina non è incline ad ammettere sentenze non costitutive nel processo amministrativo.
Infine, l’indirizzo maggiormente seguito, poichè coerente con il principio del raggiungimento dello scopo, ritiene che la sentenza debba acclarare l’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse.
Alla luce di quanto argomentato, si può concludere sostenendo che il sindacato sull’eccesso di potere e il principio di proporzionalità conferiscono la giusta e corretta misura del potere pubblico. Talvolta, accostano parametri umani quasi etici quando si invoca la tollerabilità del sacrificio imposto o il sacrificio minimo in vista dello scopo designato dalla norma.
Se, come esposto, il porto d’armi non è un diritto assoluto, la PA dovrà esercitare il suo potere in modo proporzionato al fine, misurato, in funzione di integrazione sociale, in adempimento di esigenze di giustizia che danno senso alla legge e ne colmano le lacune. Dunque, anche limitando l’ipotesi di espulsione di un provvedimento viziato, qualora i suoi difetti non siano tali da incidere ragionevolmente sugli interessi pubblici e privati tutelati dalla norma.