Il risarcimento del danno non patrimoniale da inadempimento

Il codice civile attuale contrappone il danno patrimoniale di cui all’art. 2043 al danno non patrimoniale ex art. 2059. Quest’ultimo è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge. La norma sembra atteggiarsi più a limitazione che ad autorizzazione del risarcimento stesso. Infatti, il problema della corretta perimetrazione del danno non patrimoniale è essenzialmente di selezione degli interessi e dei diritti risarcibili.

Il codice civile del 1865 non conteneva alcuna norma limitativa della risarcibilità di tale tipo di danno, cosicchè si riteneva ristorabile qualunque ipotesi di danno derivante dalla vita quotidiana.

Il pensiero liberale dell’epoca non riteneva meno importante il patrimonio personale e morale rispetto a quello economico.

In via pretoria nel 1924 la Corte di Cassazione introdusse una stringente limitazione, in base alla quale il danno in oggetto poteva essere risarcito solo nelle ipotesi di legge.

Con il codice Rocco del 1930 tali ipotesi furono espresse ex art. 185 c.p. dalla fattispecie di reato. Se un unico fatto avesse integrato reato e illecito civile avrebbe legittimato il risarcimento del danno non patrimoniale, in quanto sarebbero stati lesi interessi e valori socialmente rilevanti. Il danno non patrimoniale doveva quindi ritenersi un danno tipico.

Il codice civile del 1942 riprese la detta impostazione, distinguendo in maniera dicotomica il danno patrimoniale atipico ai sensi dell’art. 2043, e il danno non patrimoniale tipico ex art. 2059 . Anche in questo caso l’impostazione politica dell’epoca ebbe la sua influenza.

L’art. 2043 si esprime in termini ampi, ossia ricomprende qualunque fatto doloso o colposo, mentre l’art. 2059 si muove in un’ottica tipizzante dei soli casi previsti dalla legge. Al di fuori di questi si sancisce il principio della irrisarcibilità del danno non patrimoniale.

Il diritto privato si riteneva tutelasse gli interessi economici, i quali acquistano rilevanza pubblica se derivanti da reato poiché la norma penale tutela appunto valori sociali di rilevanza pubblica con una completa riparazione del danno.

In questa fase si evidenzia la sostanziale equivalenza tra danno morale e danno non patrimoniale, intendendo con il primo sia il dolore transeunte che ogni altra offesa a valori non economici.

Il danno patrimoniale doveva consistere in un danno evento, ovvero nella lesione del patrimonio del soggetto; il danno non patrimoniale nel danno conseguenza, ossia tutte le conseguenze esistenziali negative secondo una lettura ampia dell’art. 2059.

Tuttavia, proprio la superiore norma divenne una sorta di gabbia alla risarcibilità dei danni non patrimoniali, e nel 1986 la Corte Costituzionale arricchì di nuovi significati costituzionali sia l’art.2043 che l’art.2059. Infatti, posto che agli interessi materiali era stata da tempo preminenza, la Corte Costituzionale fornì una lettura più ampia del concetto di patrimonio ex art.2043. In esso vi fece rientrare anche aspetti non prettamente economici ma personali, come il bene salute, onde svincolarlo dall’art.2059.

Ne discende che grazie alla cd tecnica del travaso i pregiudizi derivanti dalla lesione di diritti fondamentali passarono sotto la copertura dell’art.2043.

L’art. 2059 in combinato disposto con l’art. 185 cp restò a tutela dei soli danni morali subiettivi, ovvero la sofferenza transeunte.

Tuttavia, per collegare il danno alla salute all’art.2043 cc, e qualificarlo come patrimoniale, occorreva eventizzarlo, in quanto le conseguenze personali ed esistenziali di una lesione a interessi non economici sono chiaramente non patrimoniali.

Invece, se si fosse considerata la salute al pari di una posta del patrimonio, la stessa sarebbe diventata sempre risarcibile.

Dopo la menzionata sentenza della Consulta ci si pose il problema di verificare se oltre alla salute rientrassero anche altri diritti fondamentali della persona nella ricostruzione del danno-evento.

Fece la sua apparizione anche il danno esistenziale, definito come peggioramento della qualità della vita, della personale agenda esistenziale appunto.

Prima degli sviluppi giurisprudenziali del 2003, quindi, il danno non patrimoniale era composto di tre voci: danno biologico, ovvero una lesione al diritto alla salute ex art. 32 Cost; danno esistenziale, ossia una lesione ai diritti fondamentali dell’uomo ex art. 2 Cost; danno morale soggettivo, consistente nel dolore derivante dalle “lacrime che si asciugano”, ossia un dolore transeunte.

Secondo l’opposto orientamento consequenzialistico, invece, il cd danno esistenziale risarcibile arrivava a ricoprire tutte le menomazioni derivate da ogni torto aquiliano o da inadempimento contrattuale. Focus della teoria in oggetto era il danno, in quanto si reputavano risarcibili tutti i pregiudizi esistenziali conseguenza della lesione di un qualsiasi diritto che ben poteva esorbitare dalla Carta Costituzionale.

Al fine di escludere facili automatismi risarcitori, si richiedeva sul piano probatorio un forte impegno in tal senso da parte del danneggiato-creditore, il quale doveva dimostrare i pregiudizi patiti. Starà al danneggiante provare che in concreto quelle attività precluse all’attore non sarebbero mai state dallo stesso svolte.

Nel 2003 la Corte di Cassazione interpretò secondo un’ottica costituzionale l’art. 2059, spezzò la sua struttura fortemente tipica, e desunse che il danno biologico e quello esistenziale fossero risarcibili in ogni caso vi fosse stata una lesione a diritti fondamentali dell’uomo. Infatti, le stesse norme costituzionali che tutelano detti diritti fondamentali sarebbero i “casi di legge” pretesi dall’art.2059.

La riparazione minima alle citate lesioni era rappresentata dal meccanismo dell’indennizzo, il quale non era più assoggettabile a specifici limiti dati dalla espressa previsione legislativa. Le norme della legge fondamentale ben potevano rappresentare i casi determinati dalla legge.

Il danno non patrimoniale non era più solo quello morale, ma accoglieva ogni lesione di valori inerenti la persona. Dunque, ricomprendeva anche il danno biologico e quello esistenziale.

La suddescritta operazione ermeneutica riportava il danno non patrimoniale nell’ambito dell’art.2059 cc e nella categoria del danno-conseguenza.

Nel 2008 le Sezioni Unite, con le famose sentenze di San Martino, definite così perché rese il giorno 11 novembre consacrato a questo santo, appunto, precisarono che non esisteva un’autonoma categoria di danno esistenziale, e che il danno non patrimoniale era unico. Tutt’al più scomponibile in sottocategorie, ma ai soli fini descrittivi.

Il danno esistenziale non era, dunque, dissimile da quello morale. Era stato creato per sopperire ad un vuoto di tutela, che non aveva più ragion d’essere, poiché i pregiudizi esistenziali, in assenza di reato e fuori dai casi determinati dalla legge, erano risarcibili se conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona.

Le due uniche categorie ritenute valide dalle Sezioni Unite erano, perciò, quella del danno patrimoniale e quella del danno non patrimoniale. Gli interessi integranti tale ultima tipologia non venivano individuati solo dalla legge, ma dovevano essere selezionati caso per caso dal giudice, il quale doveva aver cura di escludere dalle pretese risarcitorie i cd diritti immaginari, ovvero di scarso rilievo costituzionale, come ad esempio il tacco della sposa che si spezza. Ciò in un’ottica di bilanciamento degli interessi in gioco con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost..

Se per il danno patrimoniale era sufficiente il filtro dell’ingiustizia ex art. 2043 cc, per il danno non patrimoniale la lesione doveva essere ingiusta dal punto di vista costituzionale e tipica.

Parte della dottrina contestò tale assunto proprio in virtù dell’ampliamento del catalogo dei valori costituzionalmente risarcibili. Alla luce di tale considerazione, l’asserita tipicità del danno non patrimoniale appariva difficilmente sostenibile. Come pure il duplice requisito dell’ingiustizia e della tipicità, in quanto non emergeva in modo incontestabile dal testo delle sentenze del 2008.

Le Sezioni Unite, inoltre, riconobbero la risarcibilità dei danni non patrimoniali a prescindere dalla fonte della responsabilità, sia essa aquiliana che ex contractu; ciò grazie all’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cc. e dell’art. 1218 cc., norma cardine del sistema contrattuale. Quest’ultima sancisce l’obbligo per il debitore di risarcire il danno derivato dall’inadempimento contrattuale, senza specificare che debba trattarsi di un nocumento patrimoniale. Sicchè, la sua rilettura in chiave costituzionale dava ingresso alla tutela risarcitoria anche per la prefata tipologia di danni non patrimoniali.

In caso di violazione dei diritti inviolabili dell’uomo conseguita all’inesatta o mancata esecuzione della prestazione non poteva essere negata la tutela minima degli stessi, ossia quella risarcitoria.

Le Sezioni Unite adottarono il superiore criterio ermeneutico anche rileggendo l’art.1223 cc nel senso di ritenere che il lucro cessante e il danno emergente ben potevano riguardare anche perdite e mancate utilità di natura non patrimoniale, se causate dalla violazione di diritti fondamentali della persona.

Le Sezioni Unite ritennero, dunque, che il danno non patrimoniale da inadempimento fosse sempre risarcibile nei casi di reato, secondo il combinato disposto degli artt. 2059 cc.e 185 cp.; nelle ipotesi espressamente previste dalla legge, e nelle fattispecie concrete nelle quali l’inesatta o mancata esecuzione della prestazione dovuta leda un interesse inviolabile della persona.

Inoltre, ritennero superato il ricorso all’espediente costituito dal cd cumulo delle azioni, contrattuale per i danni di tipo patrimoniale, aquiliana per quelli non economici. Il detto cumulo era stato utilizzato per superare l’ostacolo della mancanza nella disciplina della responsabilità contrattuale di una norma analoga all’art. 2059 c.c. in materia di illeciti .

L’impostazione tradizionale si basava sul dato letterale dell’art. 1321 cc., che scolpisce la nozione di contratto, evidenziandone solo la natura patrimoniale.

Dunque, è stato sempre escluso che si potessero avanzare richieste risarcitorie per danni non patrimoniali.

In virtù anche del dato sistematico, ossia della collocazione dell’art. 2059 nel titolo IX del Libro V, rubricato “Dei fatti illeciti”, si deduceva la limitazione del ristoro monetario dei danni non economici ai soli torti extracontrattuali. Ciò anche al fine di evitare che proliferassero istanze risarcitorie, ledendo il principio di tipicità sancito dal citato art. 2059 cc.

Il superiore impianto argomentativo è stato criticato e superato dalla giurisprudenza pretoria che ha poi creato la figura del “contatto sociale”, la quale ha convogliato fattispecie prima ricondotte nell’alveo dell’art. 2043 cc nell’ambito dell’art. 1218.

L’orientamento giurisprudenziale più recente prende le mosse dal disposto dell’art. 1174 cc, il quale specifica ed aggiunge che l’obbligazione può rispondere anche ad un interesse non economico del creditore. Ne consegue che la prestazione può anche appagare bisogni non economici, di svago, di piacere del singolo, come per esempio nel caso del danno da vacanza rovinata.

L’art. 1382, inoltre, prevede la possibilità di stipulare una clausola penale che predetermini in via convenzionale l’ammontare di una somma dovuta in caso di inadempimento, consentendo alle parti di coprire anche danni non economici da mancata o inesatta esecuzione del contratto.

L’art. 1322 cc, funge da filtro alle pretese infondate, in quanto stabilisce che le parti possano concludere contratti atipici ma solo se diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.

La selezione dei pregiudizi ristorabili è poi attuata grazie alla interpretazione della causa in concreto del contratto ex art. 1325 cc, quale prospettiva economica-individuale. Questa permette, dunque, di far entrare nel contratto anche aspetti non patrimoniali che assumono rilievo anche nella fase patologica dell’adempimento.

Un’ulteriore limitazione alla risarcibilità dei danni non patrimoniali da inadempimento è offerta dall’art. 1225 , che restringe l’ambito dei pregiudizi risarcibili a quelli prevedibili dal danneggiante al momento della conclusione del contratto, con la sola eccezione del dolo.

Al riguardo parte della dottrina distingue tra tre tipologie di danni, ossia quelli non patrimoniali impliciti, che si verificano secondo l’id plerumque accidit; quelli esternati, conosciuti dal danneggiante; e quelli non esteriorizzati, intimi, rimasti nella dimensione interiore del danneggiato.

Si riconosce tutela risarcitoria ai primi due tipi, mentre nel terzo caso il pregiudizio troverà ristoro solo nelle ipotesi dolose.

Nel 2016 la cd sentenza Travaglino ha precisato, sulla scorta delle scienze psicologiche, che il danno morale deve essere correlato al dolore interiore, mentre quello esistenziale all’alterazione della vita quotidiana. Ha, dunque, insistito sulla duplice dimensione della sofferenza umana e sulla distinzione ontologica tra le conseguenze interiori e quelle di tipo relazionale. Non ha, però, sconfessato l’unitarietà della risarcibilità delle voci di danno in esame.

Altra sentenza del 2016 ha tentato di differenziare il danno biologico da quello esistenziale, sostenendo che il primo non assorbe sempre e comunque il secondo, il quale non è un mero sconvolgimento della propria agenda di vita.

Nel 2018, infine, la Corte di Cassazione ha ribadito la natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale, intendendo precisare che il giudice dovrà tener conto nella liquidazione di qualsiasi pregiudizio non patrimoniale patito.

Il cd. codice del turismo, ossia il d.lgs. 79/2011, come da ultimo modificato proprio nel 2018, restituisce all’art.46 una pregevole definizione del danno da vacanza rovinata, il quale rappresenta una delle applicazioni più frequenti di risarcimento del danno non patrimoniale da inadempimento.

Il predetto danno va inteso sia come danno economico che come disagio psicofisico conseguente alla mancata realizzazione in tutto o in parte della vacanza programmata. La prova dell’inadempimento è la prova del danno, quindi gli stati psichici non possono formare oggetto di prova diretta e sono desumibili dalla mancata realizzazione della finalità vacanziera.

È stata la Corte di Giustizia europea ad affermare per prima la risarcibilità del danno non patrimoniale da inesatta esecuzione dei servizi essenziali con la direttiva n.90/314 CEE.

Prima del prefato Codice del Turismo l’inadempimento del contratto avente ad oggetto pacchetti turistici era risarcibile quale danno non patrimoniale ai sensi del combinato disposto degli artt. 2059 cc, 2 e 32 Cost..

Ebbene, l’inadempimento delle prestazioni che formano oggetto del pacchetto vacanze non di scarsa importanza ai sensi dell’art. 1455 cc determina il danno in oggetto, risarcibile espressamente.

Alla luce del principio di solidarietà ex art. 2 Cost. non verranno risarciti i semplici fastidi minimi, ma il danno economico e quello patito per i disagi seri, le angosce, i patemi d’animo, le aspettative tradite. È richiesta, dunque, una tolleranza minima e la serietà del pregiudizio, in un’ottica di bilanciamento demandata al prudente apprezzamento del giudice di merito.

Si registra, però, come le parti ben possano inserire nel regolamento contrattuale la cd clausola bagatellare, in base alla quale far rientrare nell’ambito risarcitorio anche quelle situazioni che per taluno potrebbero essere futili o prive di pregio. Di tal avviso sembra essere la Corte di Giustizia, più scettica la giurisprudenza nazionale.

Anche e soprattutto durante lo svolgimento del rapporto di lavoro, contratto protettivo per eccellenza, si possono verificare ipotesi di tutela risarcitoria del danno non patrimoniale per inadempimento contrattuale. È il caso del danno da demansionamento illegittimo, da molestie sessuali, da mobbing, ivi compresa la variante più tenue dello straining, da stress per usura psico-fisica, da infortunio sul lavoro.

Tale lettura è stata condivisa dalle menzionate Sezioni Unite nel 2008, e prima ancora nel 2006.

È stata definitivamente ammessa la riparazione di nocumenti morali in senso lato conseguenti alla violazione del programma contrattuale in materia di lavoro subordinato.

L’illegittimo uso dello ius variandi, per esempio, determina un danno patrimoniale e non da demansionamento.

L’ipotesi descritta dall’art. 2103 cc ricorre di frequente nella casistica dei danni che ci occupa.

La norma presidia il bagaglio di competenze e professionalità maturate, ma anche l’integrità psico-fisica del lavoratore. Dunque, si manifestano pregiudizi di tipo economico e non. Secondo la più recente giurisprudenza si configura un inadempimento datoriale.

Non occorre riferirsi al cumulo di azioni di natura contrattuale ed aquiliana, come l’impostazione tradizionale riteneva, a seconda della natura del pregiudizio subito. Si tratta di responsabilità contrattuale, come pacificamente stabilito da dottrina e giurisprudenza.

Il danno da demansionamento, però, non è in re ipsa, va dunque dimostrato e non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale. Secondo la più recente giurisprudenza, infatti, si deve prendere atto delle novità introdotte dal Job’s Act in tema di poteri del datore di lavoro, il quale può legittimamente assegnare in maniera unilaterale il dipendente a qualsiasi mansione di ugual livello e categoria di inquadramento di quelle effettivamente svolte.

Uno dei casi più frequenti di violazione dell’art. 2087 cc sulla tutela della personalità morale del prestatore di lavoro, e che determina un danno non patrimoniale risarcibile, si avvera in occasione di molestie sessuali.

Manca una definizione normativa certa, si fa, pertanto, riferimento alla risoluzione del Consiglio d’Europa del 1990 e alle decisioni del Tribunale di Milano, le quali hanno descritto il fenomeno suddetto come qualsiasi apprezzamento allusivo, battute a sfondo sessuale, inviti a cena tendenziosi, telefonate continue.

In tali evenienze risulta risarcibile il pregiudizio di tipo non patrimoniale in quanto sono lesi i diritti fondamentali della vittima alla luce del combinato disposto degli artt.1218 cc e 2087 cc.. Tale danno ricomprende la declinazione biologica, quella morale e quella esistenziale.

Il datore risponderà anche in caso di abusi commessi da altri dipendenti allorchè abbia omesso di controllare la condotta molesta altrui, e di predisporre tutte le cautele idonee a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore.

Sempre alla luce di una lettura costituzionalmente orientata degli artt. 1218 cc e 2087 cc, si è affermato come il datore sarà responsabile ex contractu anche nel caso di mobbing, dall’inglese to mob= accerchiare, per omessa prevenzione di condotte tese sistematicamente ad emarginare un collega per poi eliminarlo dall’ambiente di lavoro.

Si definisce mobbing verticale o bossing, l’insieme dei comportamenti reiterati protrattisi nel tempo, tenuto da un datore di lavoro teso a mortificare il dipendente, in modo da farlo apparire inadeguato dal punto di vista professionale ed umano, determinandone così l’allontanamento.

Scatterà anche in questo caso la tutela risarcitoria di natura contrattuale, stante la lesione di interessi fondamentali della persona.

A differenza del mobbing, lo straining, dall’inglese to strain=mettere sotto pressione, è una forma più attenuata di condizioni lavorative stressogene. Non è sorretto da intento persecutorio, ma ingenera comunque frustrazione personale. Pertanto, anche lo straining è passibile di risarcimento del danno non patrimoniale.

Secondo la recente giurisprudenza, la vittima di infortunio sul lavoro ha diritto al risarcimento del danno biologico conseguente all’accertamento medico ma anche del danno morale, inteso come turbamento d’animo, conseguente alla detta lesione.

Il danno da stress o usura psicofisica si inscrive nella categoria unitaria del danno non patrimoniale causato da inadempimento contrattuale. La prestazione lavorativa svolta in violazione dei riposi giornalieri e settimanali cagiona un danno di natura non patrimoniale.

La sua risarcibilità presuppone un pregiudizio concreto sofferto dal titolare dell’interesso leso, sul quale grava l’onere della relativa allegazione e prova, anche attraverso presunzioni semplici. L’adibizione del lavoratore a turni di lavoro senza il riconoscimento dei riposi di legge determina la aumento della penosità del lavoro, ed incide su diritti costituzionalmente protetti come il diritto alla salute.

Importanti applicazioni pratiche del generale principio della risarcibilità del danno patrimoniale da inadempimento si hanno anche in campo sanitario e scolastico.

Nella ricorrenza degli elementi costitutivi del diritto di interrompere la gravidanza, individuati dalla L.194/1978, spetta alla donna il risarcimento del danno non patrimoniale per lesione del suo interesse ad una procreazione liberamente scelta, ove il sanitario ometta di diagnosticare o di informare della sussistenza di anomalie del feto.

Il rapporto tra la gestante e lo specialista sarà sempre di natura contrattuale, sia che questi agisca da libero professionista, sia che venga inquadrato nell’ambito di una casa di cura. In tale ultimo caso si parlerà più correttamente di un contatto sociale qualificato, generatore di obblighi di protezione del tutto assimilabili a quelli che originano da un rapporto contrattuale.

Occorrerà poi vagliare la consistenza eziologica della condotta del sanitario, se sia causa o occasione dell’evento lesivo.

La tesi tradizionale ritiene che i danni cagionati alla madre dalla nascita di un figlio malato non siano conseguenza immediata e diretta della stessa, ma derivino dalla scelta della coppia di avere un figlio.

La dottrina prevalente e la più recente giurisprudenza obiettano che l’art. 1223 cc va inteso alla stregua della regolarità causale, del cd. id quod plerumque accidit. Dunque, è conforme ad un criterio di normalità che la donna sapendo della malformazione del nascituro, decida di non proseguire la sua gravidanza. La gestante sarà agevolata dal punto di vista probatorio, in quanto può limitarsi a provare la sussistenza di un titolo e del danno, e allegare l’inadempimento del sanitario. Incomberà su questi la dimostrazione del fatto positivo dell’adempimento o di un fattore idoneo a recidere il nesso di causalità tra la sua esatta esecuzione e il pregiudizio verificatosi.

È stato messo in luce come l’art. 2048 cc ponga a carico degli insegnati e dei genitori una presunzione di responsabilità per il danno cagionato dal fatto illecito degli allievi o dei figli per il tempo in cui sono sotto la loro vigilanza o a condizione che coabitino con i genitori stessi.

Anche nel caso del secondo comma dell’art. 2048 cc si tratta di responsabilità contrattuale tra l’istituto scolastico e il docente, valorizzando la domanda di iscrizione e la conseguente ammissione del discente. Ne deriva, dunque, un vincolo negoziale.

La fonte dell’obbligazione insegnante-alunno sarà ascrivibile alla categoria del cd contatto sociale, in coerenza con il principio della vicinanza della prova e del favor probatorio accordato al danneggiato. Pertanto, sarà il docente a doversi impegnare a provare di non aver potuto impedire l’evento dannoso.

Parte della dottrina ha ritenuto che si tratti di responsabilità per fatto altrui, indiretta, di natura sostanzialmente oggettiva.

Secondo i giudici di legittimità, invece, si configura un’ipotesi di responsabilità per fatto proprio, dunque diretta, in violazione del dovere di vigilanza. Questo dovrà essere rapportato all’età dei discenti, e al normale grado di maturazione degli stessi. Il limite sarà segnato dall’imprevedibilità dell’evento. Certo, l’insegnate dovrà dimostrare la sua presenza fisica, ma anche di aver esercitato la vigilanza nella misura dovuta, di aver predisposto le misure organizzative idonee ad evitare situazioni pericolose, e soprattutto l’assoluta eccentricità, repentinità in concreto dell’azione dannosa.

Il tema della risarcibilità del danno patrimoniale da inadempimento contrattuale sembrava doversi arricchire di un epilogo positivo: nel 2010 è stato approvato un disegno di legge-delega che avrebbe dovuto inserire chiaramente all’interno dell’art. 1223 c.c. che il risarcimento deve comprendere anche i danni che sono conseguenza diretta ed immediata della lesione di interessi di natura non patrimoniale corrispondenti alla prestazione oggetto dell’obbligazione o che sono protetti dagli obblighi ex art. 1175 cc..

Ad oggi, tuttavia, la delega non è stata ancora attuata nei termini suesposti.

Non sembra, però, più potersi porre in dubbio la generale risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento, seppur con i limiti che le discipline specifiche segnano.

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