SUCCESSIONE DI LEGGI PENALI, TEMPUS COMMISSI DELICTI E REATI A EVENTO DIFFERITO
Il fenomeno successorio è regolato da una pluralità di previsioni normative: l’art. 25 Cost, co. 2, a tenore del quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”, l’art. 11 delle disposizione preliminari al codice civile, che sancisce la generale irretroattività della legge, e soprattutto la minuziosa disciplina di cui all’art. 2 cp, volta a enunciare i criteri di risoluzione dei vari problemi di ordine teorico e pratico che il tema dell’efficacia nel tempo delle norme penali è destinato ad alimentare.
In particolar modo, la norma codicistica al primo comma sancisce il principio della irretroattività delle norme penali incriminatrici in termini coincidenti con quelli del dettato costituzionale.
Al secondo comma prevede l’operatività del principio della retroattività della successiva norma penale abolitiva, al cui funzionamento non osta l’eventuale giudicato di condanna intervenuto in applicazione della previsione incriminatrice vigente al momento del fatto.
Al quarto comma, terzo comma prima dell’entrata in vigore della L.85/06, viene disciplinata l’ipotesi di successione di leggi solo modificative, nella quale verrà applicata quella più favorevole, anche se successiva alla commissione del fatto. Resta fermo, però, lo sbarramento dell’intervenuto giudicato.
Al terzo comma, come introdotto dalla citata L.85/06, si dispone la conversione della pena detentiva in quella pecuniaria ove la legge posteriore preveda esclusivamente quest’ultimo tipo di sanzione. Ciò costituisce una indubbia deroga alla regola posta dal quarto comma che individua nel giudicato di condanna un limite alla retroattività della disposizione successiva più favorevole, ma non abolitiva.
Dunque, nell’ordinamento penale italiano il tema dell’efficacia nel tempo della legge è dominato dal principio di irretroattività della norma sfavorevole, il quale riveste un ruolo autonomo rispetto agli ulteriori canoni ricavabili dal principio di legalità, quali la riserva di legge, la tipicità, la determinatezza e la tassatività, che concernono le fonti e l’interpretazione dei precetti.
Il fondamento ultimo del principio in oggetto risiede nella certezza del diritto e nella implementazione delle funzioni del sistema penale che costituiscono una garanzia contro possibili arbitri del legislatore, il quale potrebbe usare la sanzione penale per punire comportamenti in origine penalmente leciti.
Si garantisce così l’affidamento del cittadino, libero di poter scegliere se adeguarsi o meno al precetto penale. Il principio di irretroattività diventa, quindi, la condizione indispensabile per l’esercizio delle libertà di scelta, di autodeterminazione individuale all’interno della obbligatorietà della legge penale e per l’attualizzazione del finalismo rieducativo della pena.
La irretroattività della legge più deteriore si applica a tutti gli istituti di diritto sostanziale che concorrono a delineare l’area dell’illecito penale e le risposte sanzionatorie, in particolar modo a tutti i requisiti costitutivi del reato, comprese le condizioni di punibilità e le conseguenze penali.
Per contro, le norme processuali sono soggette al principio del tempus regit actum.
A livello sovranazionale, partendo dalla Cedu, viene in rilievo l’art. 7, il cui primo comma sancisce che i cittadini dei paesi membri della Convenzione non possono essere condannati per un fatto non previamente previsto come reato dal diritto vigente e non possono essere assoggettati a pene più gravi di quelle applicabili al momento della commissione del fatto.
Si tratta, quindi, di una previsione che non si pone in contrasto con quella dell’art. 2 cp.. Invece, ha costituito oggetto di confronto la desumibilità dal citato art. 7 della cd. retroattività favorevole, ossia del diverso principio che impone la retroattività della norma più mite entrata in vigore dopo la commissione del fatto.
Sul punto si è espressa la Grande Camera della Corte Edu nella sentenza Scoppola, con la quale ha stabilito come sia implicito il rispetto del principio da ultimo enunciato nell’art. 7, paragrafo 1.
La superiore presa di posizione è sicuramente destinata ad assumere un particolare rilievo interno, ossia impone di verificare che la retroattività mitior non sia esclusa o limitata dal legislatore nazionale in sede di introduzione di una nuova e più favorevole regolamentazione di un istituto di diritto sostanziale.
Sul versante internazionale, l’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York nel 1966, recita che:” se, posteriormente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, il colpevole deve beneficiare”. Tuttavia, l’Italia ha ratificato con riserva la menzionata disposizione; pertanto, si applica ai procedimenti in corso e non anche a quelli definiti con decisione divenuta irrevocabile.
Inoltre, la Corte costituzionale ha sostenuto che le norme del Patto di New York abbiano grande importanza, ma non possano assurgere a parametri nel giudizio di costituzionalità. Sicchè, la loro eventuale contraddizione da parte di norme interne non determinerebbe di per sé un vizio di incostituzionalità.
Sul fronte comunitario, la Corte di Giustizia ha affermato, sulla base del comma 2 dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea, come risultante dal Trattato sottoscritto ad Amsterdam nel 1997, che i diritti fondamentali sono parte integrante dei principi generali del diritto che l’Unione europea garantisce. Inoltre, ha statuito che tra le tradizioni costituzionali comuni rientri l’applicazione retroattiva della pena più mite, quale principio generale desumibile dal complesso degli ordinamenti giuridici nazionali e dai trattati internazionali dei quali gli Stati membri sono parti contraenti.
Lo stesso principio sancito nell’art. 15 del Patto di New York è stato esplicitamente confermato dall’art. 49 co. I della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, firmata a Nizza nel 2000, secondo il quale “se successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima.
Infine, per opera della riscrittura dell’art. 6 TUE la citata Carta dei diritti fondamentali ha oggi lo stesso valore dei Trattati. Ne consegue che il principio di retroazione favorevole costituisce ora un principio fondamentale della normativa comunitaria in ambito penale. Ha, quindi lo stesso valore delle norme contenute nei Trattati e vincola anche l’attività del legislatore italiano, costituendo una guida fondamentale per l’esercizio della funzione giurisdizionale.
Emerge, pertanto il riconoscimento nelle fonti di diritto internazionale e comunitario del principio non solo della irretroattività sfavorevole, ma anche di obbligatoria retroazione della lex mitior.
Di assoluta rilevanza ai fini della corretta applicazione delle regole successorie, dunque, è l’indagine relativa al tempus commissi delicti.
L’esatta indicazione del momento consumativo del reato assume importanza nell’affrontare una molteplicità di problemi di tipo processuale e sostanziale. Si pensi, infatti, all’individuazione del giudice competente per territorio, all’arrestabilità in flagranza di reato, o ancora alla decorrenza del termine di prescrizione, alla configurabilità del concorso di persone nel reato.
Dunque, il problema assume valenza ove il fatto si perpetui nel tempo sotto l’imperio di differenti normative in successione fra loro.
In assenza di una disposizione specifica sul punto sono proliferati in dottrina differenti tentativi di ricostruire quale sia la normativa applicabile.
Prendendo le mosse dagli artt. 6 cp e 157 cp sono state elaborate essenzialmente tre ipotesi ricostruttive. La prima disposizione è dettata in tema di locus commissi delicti, che individua il momento consumativo laddove si realizzino l’azione e l’evento; la seconda detta le regole in tema di prescrizione.
Ebbene, la teoria largamente prevalente allo stato attuale è quella della condotta, secondo la quale il reato viene considerato commesso all’atto della condotta, appunto. Infatti, è nel momento dell’azione o della omissione penalmente rilevante che l’agente si pone materialmente contro il precetto della legge.
Nel cc.dd. reati istantanei l’accertamento del tempo sarà abbastanza agevole; rispetto a questi, infatti, finisce per coincidere con il compimento dell’azione tipica allorchè si tratti di reati a forma vincolata o dell’ultimo atto posto in essere con volontà colpevole qualora si sia al cospetto di fattispecie a forma libera.
Nel reato omissivo improprio si farà riferimento all’omissione che per prima risulta in contrasto con il dovere di azione rilevante. Nel reato omissivo proprio, invece, si oscilla tra chi ritiene che rilevi la scadenza del termine per adempiere e chi sostiene l’ammissibilità del tentativo e, quindi, conferisce riguardo al momento in cui il soggetto si pone nella condizione di non adempiere.
Su altro fronte ricostruttivo si pongono i sostenitori della teoria dell’evento, in base alla quale il tempus non coincide con quello della realizzazione della condotta ma con quello della integrale consumazione del reato. Quindi, nei reati di evento, si fa riferimento alla verificazione dell’evento naturalistico previsto dalla norma incriminatrice.
Infine, la teoria mista si focalizza sulla verificazione di condotta ed evento.
Si discute in dottrina e in giurisprudenza, dunque, su quale sia il criterio per l’individuazione del tempus commissi delicti nei casi in cui la peculiare conformazione della fattispecie consenta un apprezzabile scarto temporale tra la condotta e l’evento naturalistico, ossia riguardo ai cc.dd. reati a evento differito o lungo-latenti.
Infatti, a fronte di una condotta interamente ricadente sotto il vigore di una legge più favorevole e di un evento intervenuto sotto una disposizione più sfavorevole, sono emersi due orientamenti prima della soluzione offerta dalle Sezioni Unite nel 2018 a dirimere il contrasto.
Un primo indirizzo ha dato rilevanza alla commissione del reato, intesa come consumazione dello stesso, che per i reati di evento coincide con la verificazione di questo, anche laddove ciò avvenga a distanza di tempo dalla condotta. In adesione della suddetta teoria trova applicazione la disciplina vigente al momento dell’evento, anche intervenuto a distanza di tempo, pur quando comporti conseguenze sanzionatorie più severe di quelle previste precedentemente.
Il superiore approccio ermeneutico ha sollevato diverse condivisibili critiche. In primis, che il soggetto non sarebbe in grado di adeguare la propria condotta alle mutate prescrizioni di legge. Le disposizioni legislative sarebbero applicate retroattivamente a fatti commessi in un tempo in cui non erano conoscibili. L’esigenza sottesa al principio di irretroattività della norma sfavorevole, come argomentato in precedenza, è proprio quella di tutelare le libere scelte dei consociati, la loro libera autodeterminazione, rendendo prevedibili le conseguenze giuridiche e penali.
All’orientamento illustrato si contrappone uno più risalente, ma accolto dalle SS.UU. nel 2018, le quali sono intervenute nel caso di un omicidio stradale che ha visto uno iato tra la condotta e l’evento -morte avvenuto sotto la vigenza del nuovo art. 589 bis, introdotto dalla L.41/16. Ebbene, le Sezioni Unite hanno aderito alla teoria della condotta e hanno rimarcato l’assoluta incompatibilità del diverso criterio dell’evento con il principio costituzionale della irretroattività sfavorevole e con la funzione rieducativa della pena.
Il primo principio assicura la preventiva valutabilità delle conseguenze penali della propria condotta funzionale a preservare la libera autodeterminazione della persona. Ne consegue che debba essere proprio la condotta il punto di riferimento temporale essenziale a garantire la calcolabilità delle citate conseguenze penali. A sostegno dell’adesione al criterio della condotta militano anche le funzioni della pena, da quella general-preventiva a quella rieducativa. Quanto alla prima, è nel momento in cui l’agente agisce ovvero omette l’azione doverosa che si pone in contrasto con la funzione di orientamento della norma penale. Sicchè ai fini della successione di legge penali il tempo del commesso reato va individuato nella condotta, ossia quando la funzione di prevenzione generale della norma penale può esplicarsi.
Il criterio della condotta, dunque, è il solo coerente con la funzione rieducativa assegnata alla pena dall’art. 27 Cost. Presupponendo che con la sanzione si stigmatizzi un disvalore consapevolmente espresso dall’agente con l’azione o l’omissione, è la condotta, appunto, che contrasta con la disciplina in quel momento vigente.