La tutela nel caso di consumazione del potere amministrativo
L’azione amministrativa oggi non ha più carattere meramente unilaterale, ma solo tendenzialmente unilaterale, e asimmetrico, in quanto il potere di imperio può sì appartenere solo alla PA, tuttavia la stessa può versare anche in situazioni giuridiche passive a vantaggio dei privati.
L’attività amministrativa non è più imposta al cittadino-suddito, in posizione di subordinazione gerarchica. Anzi il rapporto procedimentale, definito come il potere pubblico nel suo farsi, in divenire, il vero fulcro, dunque, dell’agere amministrativo, è diventato un luogo democratico dove entrano in contatto soggetti portatori di interessi differenti e spesso antitetici, grazie all’istituto della partecipazione e al rispetto del principio del contraddittorio disciplinati dalla legge sul procedimento n.241/90.
Sotto la forte spinta del diritto europeo che si fa garante dei cittadini, il potere pubblico deve essere funzionalizzato alla cura degli interessi della collettività, teleologicamente direzionato. In tal senso i referenti normativi sono dati dalla Cedu che agli artt. 6 e 7 disegna il cd. Fair trial, ossia il giusto procedimento, e dagli artt. 41, 42,47 e 52 della Carta di Nizza. Le suddette norme esprimono chiaramente come il procedimento sia sottoposto ai principi del diritto europeo di doverosità, trasparenza, consensualità, responsabilità, comparazione, sindacabilità e consumabilità del potere pubblico.
L’art.2 della L.241/90 ha, inoltre, canonizzato il principio di doverosità dell’esercizio del potere amministrativo, declinato nel senso di dover procedere e di provvedere, e della certezza dei tempi dell’azione amministrativa. Dunque, il silenzio serbato dalla PA costituisce un comportamento violativo dell’art. 97 Cost., perché contrario al principio di buon andamento, in combinato disposto con l’art.2 citato.
Inoltre, il tempo è ormai considerato un bene della vita, e come tale pienamente tutelato. Il tempo dell’azione amministrativa, come recentemente affermato dal Consiglio di Stato, rappresenta una parentesi all’interno della quale la potestà amministrativa spiega efficacia attrattiva sulla sfera giuridica dell’amministrato.
Il tempo consuma il potere, il quale, dunque, non è eterno. Pertanto, si profilano tre modelli di consumazione del potere, ossia la scadenza del termine perentorio per provvedere, la produzione di un effetto legale tipico ex art. 2 co.8 bis L.241, il cd. one shot temperato, di creazione pretoria; inoltre, la disciplina eccezionale ex art. 10 bis, come modificato dalla L.120/20, introduce una nuova ipotesi secca di consumazione del potere pubblico, la quale conduce a un giudizio amministrativo di attribuzione del bene della vita, ma non di spettanza dello stesso.
Ebbene, in omaggio ai predetti principi di doverosità dell’azione amministrativa e di certezza dei tempi di conclusione del procedimento, l’art. 2 citato dispone quale regola generale che in assenza di una disciplina primaria o regolamentare speciale il procedimento iniziata su istanza di parte o d’ufficio debba concludersi con l’adozione di un provvedimento espresso entro trenta giorni. Il superamento di tale limite è ammesso ove indispensabile tenendo conto dell’organizzazione amministrativa, della natura degli interessi coinvolti e della particolare complessità del procedimento stesso. L’allungamento dei tempi non può superare i centottanta giorni, salvo nelle materie di acquisto della cittadinanza e di immigrazione.
Il nuovo comma 8 bis, introdotto dal Decreto Semplificazioni n.76/20, dispone l’inefficacia l’inefficacia degli atti tardivi adottati dalla pubblica amministrazione, al fine di incentivare il rispetto dei termini procedimentali e l’osservanza del dovere di esercitare l’attività entro un termine ragionevole.
Alla luce della disposizione in esame, soggiacciono alla sanzione dell’inefficacia i provvedimenti, le autorizzazioni, i pareri, i nulla-osta e gli altri atti di assenso adottati dopo la scadenza dei termini relativi alla conferenza dei servizi, ai rapporti tra le pubbliche amministrazioni, al silenzio-assenso e alla scia. Secondo una prima ricostruzione, l’inefficacia dell’atto tardivo sarebbe indice di carenza di potere; dunque, l’atto sarebbe nullo, in quanto conseguenza di un vizio che ha consumato il potere stante il decorso infruttuoso del tempo. Pertanto, l’unica tutela approntabile per il privato pregiudicato dall’atto tardivo sarebbe rappresentata dall’azione di nullità ai sensi dell’art. 31 cpa.
Tuttavia, l’adesione al superiore indirizzo genera dubbi sulla portata della norma in esame. Infatti, l’inefficacia degli atti tardivi sembrerebbe applicabile a una serie di fattispecie non espressamente previste, come per esempio i casi di silenzio-rigetto o di silenzio-inadempimento, nei quali il potere si è consumato. Attraverso tale estensione si applicherebbe in via generale l’inefficacia degli atti tardivi, nonostante il catalogo dettato dal legislatore.
L’altra possibile impostazione prescinde dalla nullità, e prescrive l’inefficacia come sanzione della tardività. Dunque, le conseguenze sul piano della tutela del privato appaiono nel senso di ritenere percorribile solo l’azione di mero accertamento, non esistendo un’apposita azione per l’inefficacia. Inevitabilmente il campo di applicazione sarà più stretto, in quanto concepita come sanzione, e sarà di stretta applicazione. Per i casi non espressamente previsti, sicchè, l’atto tardivo sarà annullabile per violazione di legge dovuta al cattivo esercizio del potere.
Un’altra rilevante questione attiene al regime degli atti tardivi della PA adottati a seguito della nomina del commissario ad acta. Ebbene, la questione è stata rimessa di recente all’attenzione dell’Adunanza Plenaria, la quale è stata chiamata a vagliare le due posizioni sorte in merito. La prima , minoritaria, ritiene che vi sia un’ipotesi di consumazione del potere della PA, pertanto, gli atti adottati sarebbero nulli. In tal senso l’art. 117 cpa indicherebbe la volontà legislativa di esautorare la Pa sin dalla nomina del commissario.
La seconda ritiene che la PA perda il suo potere nel momento dell’insediamento del commissario, in quanto solo allora vi sarebbe il trasferimento del potere, la surrogazione nello stesso da parte dell’ausiliario del giudice. Tuttavia, l’ordinanza di remissione, dopo aver dato atto delle superiori ricostruzioni, evidenzia come sia in vigore il principio di legalità in relazione al riparto di competenze, il quale sarebbe violato se la PA fosse esautorata. Dunque, né con la nomina né con l’insediamento del commissario ciò si realizzerebbe, anche perché manca una disposizione di legge o una sentenza esplicita che preveda tale effetto estintivo del potere.
Passando, ora all’altra ipotesi di consumazione del potere pubblico e alla tutela prevista per i soggetti coinvolti, occorre dare atto di una ipotesi di creazione giurisprudenziale, il cd. “one shot temperato.
Il suddetto fenomeno si manifesta successivamente all’intervenuto giudicato di annullamento di un provvedimento amministrativo di riesame. In tale circostanza l’Amministrazione può esercitare nuovamente il suo potere, ampiamente discrezionale, purché riesamini l’affare nella sua interezza e sollevi, una volta per tutte, ogni questione ritenuta rilevante, senza potere successivamente tornare a decidere in senso sfavorevole per il privato. Ne deriva un ulteriore caso di consumazione del potere, condizionato da una ragione sostanziale diversa da quella ritenuta infondata nel precedente giudizio. La detta consumazione riguarderà solo il singolo procedimento, con efficacia endoprocedimentale, in quanto sarà possibile indire in seguito un nuovo procedimento.
Sicchè, solo nel caso in cui dal giudicato scaturisca un obbligo così puntuale da non lasciare margini di discrezionalità in sede di rinnovazione, l’assunzione di provvedimenti in violazione di tale obbligo potrà essere fatta valere con il giudizio di ottemperanza o nell’ambito dello stesso; se invece, dovessero residuare margini di discrezionalità, in cui siano stati esternati ulteriori e diversi motivi negativi, ci si troverà al di fuori dello spazio coperto dalla sentenza. Gli atti successivamente emanati dall’Amministrazione, pur riferiti ad un’attività rinnovata ora per allora, saranno soggetti all’ordinario regime di impugnazione, in quanto sarà configurabile solo un vizio di legittimità, rilevabile e prospettabile nelle sedi proprie.
A fronte di una ipotesi di one shot temperato, il nuovo art. 10 bis della L.241, ne introduce una per così dire “secca”, procedimentale. Infatti, posto che la PA deve esprimere tutti i motivi di diniego al provvedimento ampliativo chiesto dal privato, questi, a fronte delle osservazioni presentate, imporrà alla PA stessa il dovere di esame per intero della questione sottoposta alla sua attenzione.
Le acquisizioni procedimentali diverranno un vincolo stringente, in quanto determineranno la consumazione del potere pubblico di provvedere, al fine di evitare una eccessiva parcellizzazione dell’azione amministrativa. Si vuole, cioè, evitare la defatigante alternanza tra procedimento e processo nei casi in cui l’amministrazione, dopo la sentenza di annullamento conseguente al mancato accoglimento delle osservazioni del privato ex art. 10-bis l. 241/1990, continui sistematicamente a negare il bene della vita con motivazioni ostative ogni volta differenti.
Pertanto, il potere pubblico potrà esser riesercitato, ma non sulla base di motivi già emergenti dall’istruttoria precedentemente espletata. Se, dunque, saranno opposte ragioni non emergenti per tabulas o sopravvenute, il privato potrà impugnare il provvedimento negativo per ottenerne l’annullamento presso il giudice amministrativo.
Se, invece il provvedimento emanato riporterà gli stessi motivi di diniego emersi ex actis, la PA sarà responsabile della violazione dell’effetto conformativo, derivante da un potere consumato, e il privato potrà agire in sede di ottemperanza. Il giudizio, tuttavia, non sarà sulla spettanza di un bene della vita, ma direttamente di attribuzione dello stesso. Si assiste, pertanto, a una sorta di iperprotezione dell’interesse legittimo, al quale conseguirà un bene non perché spetti, ma a seguito di un potere che si è consumato, dequotando così il sindacato giurisdizionale.
Ancora, appare svilita l’importanza della comunicazione dei motivi da parte della PA, la quale riceverà un trattamento premiante qualora faccia valere argomentazioni a sorpresa, non risultanti dal contraddittorio.
Infine, i terzi, portatori di interessi oppositivi, con la consumazione del potere si vedranno lesi i suddetti interessi definitivamente. In detto rapporto multipolare, a doppio effetto, ossia lesivo e allo stesso tempo satisfattorio di altri interessi privati, di fatto si sanziona il terzo incolpevole.
Questi potrà beneficiare della tutela risarcitoria ex art. 41 cpa nei confronti del primo provvedimento in via incidentale, in quanto non ha valorizzato tutte le ragioni di diniego già risultanti nell’istruttoria, e per contestare la scorrettezza del comportamento della Pa. Non sarà percorribile, invece, il ricorso avente a oggetto il secondo provvedimento, poiché questo sarà attuativo del giudicato, dunque vincolato.
Merita, infine, un breve cenno alla scia, ossia alla segnalazione certificata di inizio attività, in quanto il comma 8 bis dell’art. 2 L.241/90 richiama i commi 3 e 6bis, primo periodo dell’art. 19, sulla scia, appunto.
La superiore norma, dunque, prescrive che la PA non possa più intervenire allo spirare dei termini di sessanta, o trenta giorni in campo edilizio, dalla segnalazione, pena l’inefficacia dei provvedimenti inibitori e ripristinatori adottati, come già esposto in precedenza. Ebbene, trascorsi i detti termini il potere della PA si esaurisce, e la parte potrebbe rimanere lesa dai menzionati provvedimenti. Specularmente il terzo potrebbe essere pregiudicato dalla mancanza degli stessi, in quanto il suo interesse legittimo sarebbe solo occasionalmente protetto e non in modo autonomo. Infatti, non è esperibile una azione cautelare avverso l’eventuale silenzio-rifiuto, anche in caso di pregiudizio immediato, come suggerita dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 15/11. Gli interessati, ai sensi del comma 6 ter dell’art. 19, potrebbero “esclusivamente” esperire un’azione tipica ex art. 31, co. 1,2, e 3 cpa, in caso di inerzia della PA; o sollecitare l’esercizio delle verifiche da parte dell’Amministrazione. L’interesse pretensivo del terzo, divenuto una sorta di collaboratore della PA, in quanto è necessaria l’intermediazione di questa, è, dunque,condizionato dall’esercizio del potere.
Il potere inibitorio del terzo è officioso, non concepito né sincronizzato sulle sue esigenze.
Rimane a questi la possibilità di chiedere alla PA il risarcimento del danno derivante dalle omesse verifiche, e al denunciante il ristoro dei pregiudizi conseguenti dall’attività posta in essere contra ius. Una tutela, quindi, di efficacia minore rispetto a quella inibitoria, come pure poco adeguata e soddisfacente sarebbe quella sanzionatoria-punitiva.
Potrebbe, inoltre, adire il giudice ordinario, per questioni di diritto civile, attinenti per esempio le norme codicistiche sul rispetto delle distanze e delle vedute.
In conclusione, il legislatore ha preferito rimanere ancorato a una tutela tipica, anzicchè ampia dei soggetti coinvolti; sacrificare in nome della ratio della liberalizzazione, sottesa all’istituto della scia, la tutela dei terzi portatori di interessi contrari a quelli del denunciante.
Un’ipotesi solutoria innovativa ha suggerito di scindere i rapporti che si vengono creare: da un lato quello interessato dalla liberalizzazione, ossia istante-PA; e dall’altro quello non interessato dalla liberalizzazione, ovvero terzi-PA. In quest’ultimo caso, se sussistesse ancora il potere pubblico, ammettendo una eccezione al disposto del comma 6 ter, che tenta di conferire certezza temporale, si potrebbero ammettere azioni atipiche di accertamento di attività poste in contrasto di norme pubbliche.