Dolo eventuale e tentativo dopo le Sezioni Unite del 2014

Il dolo costituisce la forma più grave di colpevolezza e il criterio generale di imputazione soggettiva. L’ultimo stadio di intensità è costituito dal dolo eventuale che ricorre quando l’agente ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenta la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria azione e pur tuttavia agisce e accetta il rischio di cagionarle.

La latitudine interpretativa di questa forma di dolo si può apprezzare nel dibattito mai sopito sulla compatibilità con il tentativo. Infatti, il dato letterale dell’art.56 cp parrebbe escluderla perché postula una intenzionalità diversa da quella diretta.

Tuttavia, è emersa una prospettiva oggettivistica che parte dal lontano 1983 e che ha messo in luce l’identità degli elementi psicologici, ivi compreso il dolo eventuale,  tra fattispecie tentata e quella completa. Dunque, la più recente linea di lettura propende per la compatibilità tra dolo e eventuale e art.56 cp.

Secondo il pensiero giuridico tradizionale, dunque, il dolo rappresenta l’unica e autentica manifestazione di volontà colpevole. La sua normalità applicativa determina l’eccezionalità degli altri titoli di imputazione. Ne deriva che in materia di delitti l’imputazione a titolo colposo o preterintenzionale deve essere necessariamente richiamata dalla legge.

Il soggetto che commette il delitto con dolo è esposto a un giudizio di maggiore riprorevolezza per l’adesione volontaristica al fatto, non solo previsto ma anche perseguito o accettato. È questa la connotazione che distingue profondamente il dolo dalle altre manifestazioni della responsabilità penale colpevole. Volontà e previsione esauriscono il requisito psicologico dell’agente secondo il dettato dell’art. 43 cp.

Purtroppo la definizione ivi contenuta è foriera di rilievi critici stante la sua parzialità e imprecisione. In primo luogo la dottrina si interroga sulla natura  fenomenica dell’evento, quale modificazione della realtà esteriore, o normativa, ovvero la compressione di uno specifico bene giuridico.

Il contrasto però si stempera leggendo il dolo in modo che ricomprenda tutti gli elementi necessari e sufficienti costituenti il fatto tipico, i quali devono esserci in positivo, e quelli che, invece, devono mancare, come le cause di giustificazione.

L’art.43 cp comunque ha individuato i due fondamentali poli del dolo: la rappresentazione e la volontà. Il risultato criminoso, cioè, deve essere preveduto e voluto dall’agente come conseguenza della sua condotta.

La dottrina storicamente si è affrontata anche su quale dei due elementi dovesse avere la primazia. Oggi il dibattito sembra sopito a favore della teoria della volontà la quale relega in ipotesi estremamente residuali la colpa. Dall’analisi combinata degli artt. 43 e 61 n.3, invece, si evince la valorizzazione del momento volitivo, in riferimento sia al movimento che all’inerzia in quanto costituitivi della condotta. L’aspetto conoscitivo viene deprezzato e investe tutti gli elementi sottratti al carattere volontaristico dell’agente.

La giurisprudenza e gran parte della dottrina hanno elaborato tre distinte forme di intensità del dolo.

In posizione di maggiore gravità si colloca il dolo intenzionale che ricorre quando il soggetto agisca proprio per realizzare l’evento tipizzato dalla norma o come mezzo necessario per ottenere un ulteriore risultato.

Il dominio volontaristico si attenua con la categoria del dolo diretto che si profila quando l’evento non è l’obiettivo della condotta ma l’agente lo prevede e lo accetta come conseguenza o altamente probabile.

L’ultimo stadio è appunto costituito dal dolo eventuale che ricorre quando l’agente pone in essere una condotta diretta ad altri scopi ma si rappresenta la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze. Pur tuttavia agisce e accetta il rischio di cagionarle. In quest’ultima ipotesi l’evento tipico appare diverso e collaterale rispetto a quello primario perseguito.

Tale prospettazione psicologica è attratta nell’alveo del dolo poiché denota indifferenza del soggetto verso la norma e disprezzo dei valori dalla stessa tutelati.

Nel dolo diretto l’evento tipico è accettato come prezzo certo, nel dolo eventuale è una conseguenza probabile. Spetterà solo all’indagine quantitativo-probabilistica sull’evento accessorio nella rappresentazione mentale del soggetto, guidare l’interprete nel distinguere fra i due profili dolosi dell’agente.

Al tema dell’estensione dell’oggetto del dolo è riconducibile la questione, negli ultimi anni riesaminata dalla giurisprudenza di legittimità, del trattamento penale per i casi di cd. dolo colpito a mezza via dall’errore. Si tratta di fattispecie non infrequenti e molto peculiari nelle quali l’agente, convinto di aver ucciso, come voleva, la vittima, che ha solo perso i sensi, e non è deceduta, ne esegue la sepoltura o brucia il cadavere per occultarlo. L’evento morte scaturisce da tale seconda condotta.

Dunque, vi sono due segmenti temporali: nel primo un’ azione principale caratterizzata da un dolo pieno, nel secondo, quella che determinerà realmente il decesso della vittima. Quindi, ci si domanda quale componente psicologica animi l’ultimo momento temporale.

Secondo una risalente opinione, si tratterebbe di dolo generale, in quanto l’agente voleva la morte, e alla fine l’ha causata. Dunque, l’errore non rileva e non attenua la responsabilità del reo.  Coscienza e volontà hanno sorretto la fase iniziale, e l’evento finale ne è conseguenza indiretta e mediata. Il dolo si estende attraverso una fictio iuris anche all’attività seguente anche se posta su un erroneo convincimento.

Ovviamente tale ricostruzione è stata fortemente criticata, in primis perché contraria al principio di colpevolezza che anima il nostro sistema penale. Si finisce per punire come doloso un comportamento che in realtà è colposo.

L’evento, poi, viene considerato in senso generale e non hic et nunc, si nega pertanto ogni rilevanza all’errore.  Il dolo così concepito non abbraccia tutti gli elementi tipici della fattispecie, così come impone  la nozione accolta dal nostro ordinamento.

Alla luce dei superiori rilievi, si è optato per una scomposizione dell’iter criminoso, così da attribuire a ogni fase la giusta componente psicologica. Quindi, la prima sarà caratterizzata dal tentativo di commettere un delitto doloso, la seconda sarà punita a titolo di colpa.

Ancora più impegnativa è indagare sulla distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente . numerose le tesi dottrinali che si sono succedute e che si possono distinguere essenzialmente in tre tronconi: le teorie intellettualistiche classiche, quelle volontaristiche, il criterio dell’accettazione del rischio e infine quelle oggettivistiche.

In base alle prime,  verserà in  dolo eventuale l’agente che ritiene probabile l’evento, senza che sia necessario alcun riscontro volontaristico; oppure se lo rappresenterà concretamente possibile, o ancora avrà dimostrato un atteggiamento interiore teso all’approvazione o all’indifferenza verso la verificazione dello stesso.

Si tratta, come emerge chiaramente, di orientamenti che si basano su entità psichiche affatto coincidenti con la nozione di volontà, evanescenti, che possono sovrapporsi alle personali convinzioni dell’interprete. Nella prassi, inoltre, è dato riscontrare come il sentimento di ripulsa verso l’evento non ulteriore non escluda il dolo eventuale; si pensi al terrorista che al fine di eliminare l’uomo politico preso di mira, accetti di sacrificare anche i suoi di scorta, sebbene provi compassione per questi.

Non meno importante il rilievo che un dolo così eticamente definito violi il principio di colpevolezza e l’essenza stessa di un diritto penale su basi oggettivistiche.

Il secondo gruppo di teorie valorizza il profilo volitivo del soggetto, e fra queste di recente la giurisprudenza ha seguito la cd. Formula di Frank, la quale attribuisce al giudice di verificare quale sarebbe stato il comportamento del soggetto se lo stesso avesse avuto la certezza della verificazione dell’evento secondario. Se si fosse determinato ad agire ugualmente vi sarebbe stato dolo eventuale, secondo la formula del “costi quel che costi”. Si avrebbe avuto colpa con previsione se la previsione della certezza dell’evento non voluto avesse fatto desistere l’agente.

È, dunque, richiesta una valutazione ex ante e dal punto di vista dell’agente; ciò determina evidenti difficoltà probatorie visto che si deve indagare su uno stato psicologico ipotetico. Inoltre, un’applicazione rigorosa escluderebbe il dolo in caso di fallimento del piano dell’agente pur rappresentato e voluto come concretamente possibile, come nei discussi casi di contagio a seguito di rapporti sessuali non protetti o del datore di lavoro che ometta le dovute cautele per la prevenzione degli infortuni al fine di risparmiare sui costi per la sicurezza.

Rappresentazione e volontà sono state valorizzate congiuntamente dalla tesi a lungo seguita in giurisprudenza della accettazione del rischio, accettazione che poi funge da discrimine tra dolo eventuale e colpa cosciente. Il primo sarà caratterizzato dalla concreta possibilità che l’evento si realizzi, e dunque in buona sostanza l’agente vuole l’evento stesso oggetto di previsione. Invece, la colpa cosciente si muove in un’astratta possibilità abbinata all’affidamento in fattori esterni, come l’abilità personale, l’intervento di terzi, o altre circostanze, che deviino il corso causale degli eventi.

Si ravvisa nella superiore teoria un criterio non solo insufficiente a perimetrare i rapporti tra le due figure in esame, ma soprattutto a ribaltarne i rapporti . Si darebbe così la stura a un diritto penale dell’atteggiamento interiore in termini rovesciati, in cui la ponderazione sulla possibile verificazione dell’evento troverebbe una risposta più severa di chi non si impegna nemmeno in uno sforzo riflessivo ma fa affidamento solo sulle proprie capacità di evitare degenerazioni criminose.

Il corretto percorso mentale dovrebbe snodarsi attraverso la chiara opzione dell’agire anche in sprezzo di un altro bene protetto, dunque dolo eventuale; e la colposa accettazione del rischio quale violazione dei consueti canoni di prudenza e diligenza, ossia colpa cosciente.

Le esposte critiche hanno fatto breccia nella giurisprudenza, la quale ha enunciato a partire dal 2011 la teoria del bilanciamento. Disatteso l’orientamento sulla accettazione del rischio, la Cassazione ha affermato che la previsione deve sussistere al momento della condotta sia nel dolo eventuale che nella colpa cosciente, quale elemento in comune. Tuttavia, solo nel primo l’agente subordina consapevolmente un determinato bene a un altro. Effettua, cioè, un bilanciamento tra l’interesse perseguito e il bene eventualmente leso. La prova processuale dovrà essere stringente e complessa adoperando il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio.

Importante applicazione del criterio del bilanciamento è stata data dalle Sezioni Unite nel 2014, nel decidere del noto caso della Thyssenkrupp. La sentenza in questione ha concluso affermando che il giudice deve comprendere ai fini della applicazione del dolo eventuale se l’agente, dopo aver soppesato tutti gli elementi a sua conoscenza, ivi compreso il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque. Si deve cercare, cioè, di individuare una scelta razionale il più possibile assimilabile alla volontà.

La Corte ha offerto, poi, alcuni indizi rivelatori del dolo eventuale, che non indicano ex se la presenza dello stesso, ma fungono da elenco aperto, un comodo ausilio per guidare il giudicante nell’accertamento dell’elemento psicologico.

Un primo indicatore è costituito dalla condotta che caratterizza l’illecito e che contiene rilievo determinante soprattutto nei fatti di sangue; in particolare si fa riferimento ai colpi inferti, alle parti del corpo attinte.

Un secondo è la lontananza dalla condotta standard che rileva negli ambiti generalmente caratterizzati da condotte colpose, come la circolazione stradale.

Inoltre, vi sono la storia e le precedenti esperienze dell’agente, sempre che le stesse non abbaino indotto a confidare nella abilità acquisita, come nel caso di un soggetto che ha trasmesso l’HIV al compagno, avendo avuto l’esperienza di un evento analogo senza però che si sia giunti all’esito letale.

E ancora, rileva la personalità dell’agente, la sua cultura, la sua intelligenza e professione, dati che hanno un indubbio peso sull’aspetto conoscitivo del dolo.

Un quinto indizio è la durata e la ripetizione della condotta, ossia se questa sia stata studiata e ponderata, oppure repentina e impulsiva.

Anche la condotta successiva al fatto rileva, come per esempio lo stupore o la fuga dell’investitore dopo la causazione di un tragico sinistro stradale. Certamente la seconda rivela una maggiore adesione e determinazione criminosa.

La probabilità di verificazione pure ha il suo peso, in quanto tanto più è alta tanto più si possono scorgere i segni riconducibili alla sfera del volere dell’agente.

L’ottavo indicatore consiste nel contesto lecito o illecito di partenza, in quanto se una situazione è già di per sé illecita indizia più gravemente di dolo l’agente.

La valutazione della congruenza del prezzo dell’evento non direttamente voluto, ossia il fine o la motivazione di fondo,  può far propendere per un riconoscimento di una volontà più forte di agire comunque.

Inoltre, le conseguenze negative o lesive anche per l’agente possono incidere nella direzione della colpa del predetto agente. Infine, la formula di Frank applicata in modo da escludere che il soggetto avrebbe agito se avesse saputo della sicura verificazione dell’evento.

Dunque, la Corte ha ammonito che per l’accertamento del dolo eventuale debbano essere adoperati tutti i menzionati indicatori.

Non si può tacere come la giurisprudenza successiva alla sentenza Thyssenkrupp abbia evidenziato rilevanti limiti emersi dal metodo ivi espresso.  Alcuni indicatori come le “precedenti esperienze” appaiono ambigui;  in assenza di riscontri sugli obiettivi primari, anche quelli secondari appaiono sfumati. Le difficoltà probatorie del dolo eventuale, inoltre, rendono molto complesso l’accertamento dell’elemento psicologico quando la condotta è sorretta da spinte emozionali fini a se stesse.

Giova, infine, per completezza dar conto anche delle cd teorie oggettivistiche che pretendono di riscontrare  la sussistenza del dolo già a livello di fattispecie obiettiva. Esse muovono dall’idea della natura oggettiva del rischio assunto, senza che rilevi l’atteggiamento interiore. Quindi, nelle ipotesi di rischio per così dire schermato o controllabile in virtù di determinati fattori, si verificherà l’atteggiamento psicologico della colpa cosciente. Se, invece, l’agente non fosse in alcun modo capace di dominare gli eventi e il decorso causale dallo stesso avviato, si verserà in dolo eventuale.

Tuttavia, non sempre le circostanze si dimostrano chiare e nitide, spesso sono ambivalenti e non si può prescindere nell’analisi di un elemento interiore proprio dall’effettivo atteggiamento interiore.

Ricostruito così sinteticamente il dibattito intorno alla nozione di dolo eventuale, si può apprezzare la sua latitudine applicativa nella controversa tematica della compatibilità con il tentativo di cui all’art. 56 cp.

Le difficoltà sono innescate dalla formulazione letterale della predetta norma, la quale, nel descrivere la condotta tipica tentata, usa l’espressione “atti diretti in modo non equivoco a commettere un delitto”. Pare così escludersi dall’area del penalmente rilevante qualsiasi atteggiamento interiore diverso dalla piena volizione.

Innanzitutto, va preliminarmente rimarcata l’autonomia dell’istituto del tentativo rispetto al delitto consumato, del quale costituisce un “prima” logico e cronologico. Pur derivando dalla combinazione dell’art. 56 cp con le singole fattispecie di parte speciale, il tentativo è un autonomo titolo di reato.

Dunque, dalla formulazione dell’art. 56 cp si evincono tre dati costitutivi: il mancato compimento dell’azione o il mancato verificarsi dell’evento, gli atti univoci, e gli atti idonei.

Il primo elemento è un retaggio del cd. tentativo incompiuto presente nel codice Zanardelli del 1889, e si verifica allorquando l’agente pone in essere solo una parte della sua condotta. Nel tentativo compiuto, invece, la condotta è completa ma comunque l’evento non si è verificato.

La superiore distinzione non rileva, però, ai fini dell’applicazione del trattamento sanzionatorio. L’art. 56 invece conosce la distinzione tra desistenza volontaria, che ha carattere negativo e consiste nell’interrompere spontaneamente l’attività criminosa, e il recesso attivo, ossia un’attività positiva che permette all’agente di evitare il prodursi dell’evento.

Il secondo elemento, ossia gli atti univoci, ha soppiantato gli atti esecutivi presenti nel codice Zanardelli. Per la dottrina maggioritaria si tratta, invero, di differenze puramente terminologiche; infatti solo gli atti tipici sono univoci, e gli stessi rappresentano la fase esecutiva del delitto, successiva alla ideazione e alla preparazione.

Per la giurisprudenza dominante, invece, eliminata la distinzione tra atti preparatori ed esecutivi, gli elementi caratterizzanti il tentativo si possono riscontrare anche negli atti preparatori, cioè anteriori al delitto, purchè diretti in modo non equivoco a commettere il delitto stesso, anticipando gli atti tipici.

Dunque, una ricostruzione materiale-oggettiva indaga anche l’animo dell’agente e il suo precipuo scopo di realizzare il reato. La concezione formale-oggettiva analizza la direzione degli atti e ritiene superflua l’intenzione dell’agente.

Infine, l’ultimo elemento caratterizzante il tentativo è costituito dagli atti idonei. Questo requisito sottende una potenzialità offensiva effettiva, un concreto pericolo per il bene giuridico tutelato. Il giudizio di idoneità non attinge tanto il mezzo usato, ma l’atto vero e proprio. Il secondo termine di paragone è il delitto perfetto secondo la tesi più recentemente seguita.

La natura del giudizio di idoneità, infine, è di una prognosi postuma. Dunque, ricorre il tentativo anche in caso di appostamento preventivo delle forze dell’ordine. Ed è su base parziale, ossia si riconduce alle circostanze esistenti e conosciute dall’agente o conoscibili da un osservatore imparziale.

Se, dunque, la struttura del tentativo è fisiologicamente incompatibile con l’addebito colposo, in quanto in questo deficita il requisito intenzionale, è del tutto compatibile con le forme più intense del dolo. Spinosa, come anticipato, la questione relativa alla compatibilità con l’ultimo stadio del dolo.

In particolare, una parte della dottrina ritiene che, stante l’autonomia del tentativo rispetto al delitto perfetto, in termini di alterità e quantitativi, anche l’elemento soggettivo delle due figure viva indipendentemente. Da ciò deriva che l’atteggiamento interiore del tentativo non può che essere quanto meno di dolo diretto in virtù della simmetria tra elemento oggettivo e soggettivo in tema di dolo. L’atto non equivoco è quello che fotografa la diretta intenzionalità del soggetto verso il traguardo illecito.

Di segno completamente opposto è invece l’interpretazione del concetto di univocità data dai sostenitori della tesi oggettiva. Secondo quest’ultima impostazione l’atto è univoco se, in base alle circostanze, alla situazione e al tipo di comportamento tenuto, lascia presagire secondo la legge delle probabilità l’evento delittuoso.

Viene, altresì, rivisitato il rapporto con il delitto consumato rispetto al quale il tentativo è solo un minus quantitativo, stante l’identità degli elementi psicologici, ivi compreso il dolo eventuale. Questa impostazione, d’altronde, non trova smentite nel codice. A ciò si aggiungano ragioni di politica criminale in base alle quali è opportuno evitare zone di impunità di tentativi sorretti solo dall’accettazione del rischio.

Quindi, per superare le descritte difficoltà interpretative e di compatibilità tra dolo eventuale e tentativo, si è fatto ricorso alla figura del dolo alternativo, che come anticipato è una sottocategoria del dolo diretto, quindi sicuramente compatibile con il tentativo. Si argomenta, pertanto, che quando un soggetto vuole indifferentemente l’uno o l’altro evento, perché posti su un piano paritario, e prevede e vuole alternativamente l’uno o l’altro evento, risponderà per quello effettivamente realizzato.

Nessun ostacolo logico-giuridico osterebbe a detta ricostruzione strumentale e servente ad affermare la compatibilità tra dolo eventuale e tentativo, nella quale un soggetto pone atti idonei e diretti in modo non equivoco alla realizzazione di uno o più eventi rappresentati.

 L’agente si dimostra, quindi, indifferente rispetto ad esiti dal valore equivalente. Se, dunque, nel dolo eventuale gli eventi hanno una diversa gerarchia, nel dolo alternativo sono posti sullo stesso piano.

Se il dolo alternativo ricomprende  le manifestazioni di volontà dolosa nelle quali l’agente prevede e vuole con sostanziale equipollenza l’uno o l’altro evento, il dolo diretto è compatibile con il tentativo.

Detta impostazione non è pacifica, poiché per molti autori il dolo alternativo non è una figura autonoma. Inoltre, l’indifferenza verso la verificazione degli eventi non pare seriamente tale, in quanto se il soggetto attivo riconosce come possibile opera propria qualcosa che ha previsto e voluto, verso la stessa non potrà essere indifferente per ciò stesso.

Infine, l’alternatività degli eventi ben può manifestarsi come accettazione di due eventualità alternative. La giurisprudenza stessa riconosce la strumentalità della costruzione del dolo alternativo come servente appunto ai fini della compatibilità con il tentativo, e individua con una certa discrezionalità gli eventi oggetto dell’alternativa.

Quindi, concretamente risolve in radice il problema ammettendo la compatibilità della fattispecie ex art. 56 cp con tutte le forme di dolo, ivi compresa quella eventuale.

Alla luce di quanto sin’ora argomentato il tentativo è ritenuto una forma generale di manifestazione del delitto, e il dolo è l’elemento soggettivo generale e naturale del delitto.

È prevalsa un’accezione oggettivistica che pone l’accento sulla volizione dell’evento collaterale e sul prezzo per realizzare lo scopo primario. Il tentativo è, dunque, concepito come un reato di pericolo con il dolo identico anche a quello della ipotesi consumata, da declinarsi, quindi, secondo tutte le forme di intensità.

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