La tutela convenzionale della proprietà privata nei confronti del potere amministrativo
L’espropriazione per pubblica utilità è espressione della potestà ablatoria della pubblica amministrazione, nell’esercizio della quale la stessa incide su una situazione giuridica del destinatario, comprimendola e limitandola unilateralmente.
La diversa concezione del diritto di proprietà che emerge nel raffronto tra la fonte costituzionale nazionale e quella europea incide sensibilmente sui limiti e sulle modalità di applicazione dell’istituto dell’espropriazione.
Si tratta della limitazione più incisiva del diritto di proprietà del privato, e al contempo della manifestazione più evidente della soggezione di quest’ultimo al potere di sovranità dello Stato.
Costituisce l’esito di un procedimento amministrativo disciplinato dalla legge nel quale assume rilievo centrale la dichiarazione di pubblica utilità da parte dell’autorità espropriante, seguita dall’emanazione del decreto di espropriazione con cui si sancisce definitivamente l’effetto traslativo del bene privato in favore della detta autorità espropriante per motivi di pubblico interesse, previa corresponsione di un equo indennizzo.
La Pa può diventare proprietaria di un bene privato utilizzando i normali modi di acquisto della proprietà e degli altri diritti reali a titolo derivativo salvi i limiti dettati dai principi di economicità e utilità pubblica dell’acquisto e quelli imposti dalla normativa speciale.
È, altresì, configurabile l’usucapione pubblica quale modo di acquisto a titolo originario, relativa alla possibilità che il possesso continuato per vent’anni su un bene immobile di proprietà privata, originariamente occupato dalla PA sine titulo, dia luogo alla fattispecie ex art. 1158 cc.. Ebbene, il predetto istituto è stato fortemente contestato in giurisprudenza, la quale ha sollevato dubbi sulla sua coerenza costituzionale in rapporto all’art.117 Cost. che impone l’applicazione della Cedu.
La Convenzione, al protocollo addizionale 1, come meglio si analizzerà in seguito, impone un rispetto quasi assoluto della proprietà privata, di conseguenza cassa tutte le forme di espropriazione indiretta o larvata, come appunto si configurerebbe nel caso di usucapione pubblica. Inoltre, si giungerebbe a esiti palesemente ingiusti, ovvero l’estinzione di ogni pretesa risarcitoria del privato, se si accettasse la retroattività della menzionata usucapione pubblica.
La concezione del diritto di proprietà è cambiata notevolmente con il mutare della forma di Stato e della prospettiva economico-sociale.
Secondo lo Statuto Albertino tutte le proprietà erano inviolabili, tranne nel caso in cui l’interesse legalmente accertato stabilisca che debbano essere cedute in tutto o in parte mediante una giusta indennità conforme alle leggi.
Nel codice civile del 1865 all’art.438 si ribadiva l’assolutezza del diritto di proprietà , ferma restando la possibilità di esproprio previa corresponsione di un indennizzo commisurato al giusto prezzo che l’immobile avrebbe avuto secondo una libera contrattazione di mercato.
Quindi, nella sua configurazione originaria il diritto di proprietà era concepito come essenzialmente inviolabile; il ricorso allo strumento ablatorio era meramente eccezionale e subordinato alla condizione della corresponsione di una giusta indennità al proprietario.
Tale concezione subì un primo temperamento nel codice civile del 1942, la cui relazione pone in risalto la funzione sociale della proprietà rivelando il superamento del modello individualistico dello ius dominicalis. Infatti, l’art. 832 del nuovo codice continua a riconoscere al proprietario il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, ma lo delimita entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico.
La svolta ideologica avvenne con la Costituzione repubblicana del 1948 che attribuisce al diritto in parola un ruolo diverso da quello originario. L’art. 42 sposta l’attenzione dall’individuo al bene, valorizzando l’aspetto economico di quest’ultimo e privandolo dell’iniziale inviolabilità. Questa rimane prerogativa esclusiva dei diritti fondamentali, quale la libertà personale.
Non a caso l’art. 42 è inserito nel titolo concernente i rapporti economici anziché in quello relativo ai rapporti civili e ai diritti fondamentali.
Nel nuovo assetto costituzionale la proprietà perde la sua connotazione soggettivistica per assurgere a strumento di realizzazione della funzione sociale nei limiti stabiliti dal legislatore che ne determina i modi di acquisto di godimento e di scopo, in guisa da assicurare la predetta funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.
Il comma 3 dell’art. 42 precisa poi che l’espropriazione è consentita nei casi previsti dalla legge, salvo indennizzo, per motivi di interesse generale.
Ben diversa la prospettiva ideologica europea.
Un primo riconoscimento del diritto di proprietà può individuarsi nell’annunciato art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU, firmata a Roma nel 1950, ratificata nel 1955, in base al quale ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.
Soltanto con l’art.17 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, la cd. Carta di Nizza del 2000, il diritto di proprietà è annoverato tra quelli fondamentali dell’uomo, e posto nel capitolo dedicato alle libertà.
La formulazione individualistica evidenzia le differenze con la Costituzione italiana, abdicando alla funzione sociale e concentrando l’attenzione sui diritti del proprietario, comprimibili solo per causa di pubblico interesse.
Vengono stigmatizzati gli acquisti sine titulo della proprietà, in recepimento dell’insegnamento della CEDU. Considera meritevole di tutela solo la proprietà dei beni acquistata legalmente, e sancisce che alla privazione di questa debba conseguire una indennità giusta e in tempo utile.
L’espropriazione per pubblica utilità è, dunque, espressione della potestà ablatoria della PA, nella sua forma più accentuata.
Come più volte citato la normativa cardine è dettata dal dpr 327 del 2001, definito appunto testo unico in materia di espropriazioni, che raccoglie la disciplina in maniera unitaria e omogenea, ed è ispirato ai principi di economicità, efficienza, pubblicità e semplificazione.
Tale soluzione si è resa necessaria a fronte dell’eccessiva frammentarietà e carenza di coordinamento della precedente disciplina. Ha costituito motivo di apprezzamento per lo sforzo compiuto dal legislatore ma non sono mancati i primi contraccolpi allorquando il governo del territorio, al quale va ricondotta la materia delle espropriazioni, è stato assegnato alla potestà legislativa regionale dopo la riforma del Titolo V della Costituzione.
Orbene, si possono classificare i provvedimenti ablatori in personali, quando limitano un diritto di natura personale costituzionalmente garantito nei casi previsti dalla legge, e sono per lo più ordini amministrativi; in obbligatori, con i quali si obbliga il privato ad una data prestazione, come pagare le tasse; infine in reali, come appunto l’espropriazione che incide sui diritti reali, limitandoli o addirittura estinguendoli. Si azzera un diritto dominicale e lo si sostituisce con un diritto di credito all’indennizzo.
In genere, l’effetto privativo si associa a un effetto acquisito in via temporanea o definitiva.
È utile passare in rassegna le altre tipologie di provvedimenti incidenti sfavorevolmente sulla posizione del proprietario. La PA quando ritenga sussistente una situazione indifferibile e urgente può procedere all’occupazione preliminare del bene, preordinata al successivo esproprio e iniziare subito i lavori. Si tratta di un provvedimento ablatorio che incide solo sul godimento del bene temporaneamente sottratto, dietro corresponsione di un indennizzo.
Nel caso invece di situazioni improvvise e imprevedibili il Prefetto ha il potere di incidere sulla proprietà privata per far fronte a circostanze di urgente e grave necessità pubblica con l’istituto della requisizione come previsto dall’ALL. E del 1865 e dal r.d. 773/1931.
Si distingue, ancora, la requisizione abusiva allorquando spiri il termine di cui al provvedimento di requisizione senza che il bene sia stato restituito al proprietario. Questi potrà ottenere il risarcimento del danno e il rilascio dell’immobile abusivamente occupato.
Dibattuta è la natura dell’effetto traslativo che l’espropriazione produce. Alcuni sostengono che sia un modo di acquisto a titolo originario, in quanto una volta entrato nel patrimonio della PA assume il carattere della demanialità, azzerando del tutto il precedente rapporto. Non rileva la volontà del proprietario, il quale potrà ricevere una indennità maggiorata se aderisce all’accordo di cessione; il bene si acquisisce libero da ogni vincolo; l’acquisto si produce anche nei confronti di chi non era il reale proprietario ma tale risultava dal catasto.
La differente opzione interpretativa colloca l’espropriazione tra i modi di acquisto a titolo derivativo, in quanto consegue all’estinzione della posizione soggettiva del privato. Si sostiene, inoltre, che il dato letterale fornito dal dpr 327/2001 militi in tal senso laddove parla di passaggio di proprietà all’art. 23; impone la trascrizione e disciplina la retrocessione agli artt.46-48, istituto non ipotizzabile in caso di acquisto a titolo originario.
Nella maggior parte dei casi l’espropriazione incide sulla proprietà di beni immobili ma può riguardare anche i diritti reali limitati su immobili, quali servitù e uso.
Non tutti i beni sono espropriabili, come quelli appartenenti al demanio pubblico; o lo sono a determinate condizioni dettate dall’art. 4 dpr 327/2001, come quella costituita da un interesse pubblico di rilievo superiore o da un accordo con la Santa Sede per gli immobili di proprietà di questa.
Alla luce delle suddescritte differenze ideologiche sottese alla materia espresse dalla nostra normativa e dai principi convenzionali, la Corte EDU ha ritenuto, pertanto, non ragionevole e iniqua l’indennità stabilita in applicazione del criterio dettato dall’art.37 dpr 327/2001, il cd TU espropriazioni, per le aree edificabili. Con tale disposizione si riconosce, infatti, al proprietario un indennizzo corrispondente a circa il 40-50 per cento del valore di mercato del bene, che si riduce al 30% con la detrazione delle spese e degli oneri fiscali. Secondo la CEDU l’indennizzo deve realizzare il giusto equilibrio tra interesse del privato e quello pubblico e come tale deve essere in ragionevole rapporto con il valore del mercato del bene.
Nella famosa sentenza Scordino c/Italia del 2006 la Corte Edu sostenne che una misura che interferisce sul diritto al rispetto dei beni deve trovare appunto il menzionato giusto equilibrio, ma può non garantire un risarcimento integrale a condizione che sussistano obiettivi legittimi di pubblica utilità come quelli inerenti una riforma economica o di giustizia sociale. Al di fuori di detta perimetrazione si tratta di un esproprio isolato per il quale non sussiste alcun legittimo motivo di pubblica utilità che possa giustificare un rimborso inferiore al valore commerciale.
Sulla scia tracciata dalla Corte di Strasburgo, la nostra Corte costituzionale dichiarò nel 2007 la illegittimità dell’art. 5 bis, commi 1 e 2, d.l.33 del 1992 e l’illegittimità consequenziale dei commi 1 e 2 dell’art. 37 t.u.espr. nella parte in cui prevedono il criterio di calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il reddito dominicale rivalutato ai fini dell’espropriazione dei suoli edificabili. La Consulta, quindi, mutuando l’insegnamento della Corte Edu sostenne la necessità di un ragionevole rapporto tra l’indennizzo e il valore del bene.
Il menzionato art. 5 bis, invece, ne era privo, dunque, risultava inidoneo ad assicurare un serio ristoro come richiesto dalla giurisprudenza consolidata della Corte costituzionale.
Una indennità seria, congrua e adeguata non può partire dal valore di mercato del bene per poi giungere dopo calcoli successivi a una somma del tutto disancorata dalla prima. Tuttavia, la Corte precisò che non sussiste il dovere per il legislatore di commisurare integralmente l’indennità di esproprio al valore di mercato del bene ablato, demandando allo stesso legislatore la decisione se applicare criteri fissi nel rispetto della funzione sociale della proprietà, o criteri differenziati in conformità all’insegnamento della Corte EDU.
Certamente i singoli espropri non realizzano né riforme economiche né migliorano le condizioni di giustizia sostanziale. Dunque, la base di calcolo dovrà essere il valore del bene quale emerge dal suo potenziale sfruttamento.
A fronte della descritta illegittimità costituzionale il legislatore è intervenuto sull’art. 37 con la formulazione ancora oggi vigente, la quale prevede tendenzialmente che l’indennità sia commisurata con il valore venale del bene, salvi dei correttivi di volta in volta previsti, come nel caso di espropri che avvengono nell’ambito di iniziative aventi rilevante interesse economico-sociale.
L’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU ha fondato un’altra questione di legittimità costituzionale, afferente stavolta l’art. 40 t.u. espr. sulle aree non edificabili. Queste si possono suddividere in aree agricole e aree colpite da vincolo di in edificabilità assoluta, come ad esempio quelle destinate a verde. Ebbene, l’art. 40 identifica il criterio di distinzione; al comma 1 prevede che le aree coltivate siano valutate secondo il loro valore agricolo, tenendo conto delle colture effettivamente praticate e dei manufatti edilizi legittimamente realizzati.
Il comma 2, invece, stabilisce che le aree non coltivate sono indennizzate con una somma pari al valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura prevalentemente praticata nella zona, nonché ai manufatti legittimante realizzati. Tale ultima previsione nel 2011 fu dichiarata incostituzionale in quanto il parametro adottato è illogicamente disancorato dal valore venale del bene e dalle sue effettive potenzialità di utilizzo.
La stessa Corte evidenziò altresì la disparità di trattamento previsto per le aree edificabili e a quelle non suscettibili di classificazione edificatoria. Invero, proprio l’art. 1 del Primo Protocollo addizionale prevede in via generale una disciplina insensibile alla distinzione dei beni in base alla loro qualità.
Inoltre, si è dato conto di come la giurisprudenza costituzionale italiana e quella della Corte europea siano concordi nel ritenere quale punto di riferimento per determinare l’indennità di espropriazione il valore di mercato o venale del bene, venendo altrimenti meno l’ancoraggio al dato della realtà come necessario presupposto della giusta indennità. Ne deriva che i criteri tabellari fissati dalla normativa censurata, ignorando i requisiti specifici del bene eludono il ragionevole legame con il valore di mercato richiesto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente con il serio ristoro al quale fa riferimento la nostra giurisprudenza costituzionale.
La misura dell’indennizzo non è stato l’unico argomento di frizione tra giurisprudenza nazionale Corte EDU, in quanto quest’ultima, come argomentato in precedenza, ha riservato un peculiare statuto al diritto di proprietà, sul quale dunque converge una pluralità di fonti a salvaguardia della sfera privata contro l’ingerenza dei pubblici poteri.
Il dibattito si è acceso anche e soprattutto sul fenomeno delle cd. espropriazioni indirette, ovvero quelle caratterizzate dalla possibilità per l’Amministrazione, sulla base di un titolo invalido o assente un bene privato per ragioni di interesse pubblico, di non procedere alla restituzione al proprietario, creando, quindi, una procedura espropriativa alternativa a quella ordinaria.
La Convenzione ha innalzato i livelli di tutela del diritto domenicale, assurto al rango di diritto fondamentale dell’uomo, e ha, quindi censurato, le forme di espropriazione elaborate nell’ordinamento italiano anche in sede giurisprudenziale, e le ha configurate come illecito permanente perpetrato nei confronti di un diritto primario dell’uomo. Per la Corte europea non rileva che si sia realizzata un’opera pubblica, un diritto di proprietà non può mai conseguire da un illecito.
Non è incompatibile con il principio di legalità l’origine pretoria dell’istituto ma gli esiti imprevedibili, arbitrari e lesivi dei principi di certezza e garanzia dei diritti che possono derivare dalle espropriazioni indirette. Altrettanto incompatibile con il principio di legalità è la circostanza in base alla quale la PA possa trarre beneficio da una situazione illecita.
La Corte Edu ha invitato più volte l’Italia a scoraggiare le pratiche non conformi alle norme regolanti le espropriazioni lecite, ad adottare disposizioni dissuasive, a eliminare gli ostacoli giuridici alla restituzione del terreno.
Il rispetto del principio di legalità e di preminenza del diritto in senso sostanziale e non meramente formale si traduce in un preciso parametro di qualità della legge, la quale deve essere accessibile, precisa e chiara. Invece, il quadro normativo interno, composto prevalentemente di pronunce giurisprudenziali, non dava regole sufficientemente precise, consentendo anzi interpretazioni contraddittorie e a volte arbitrarie.
Sotto il profilo processuale, poi, si deve offrire una tutela giurisdizionale effettiva, che sarebbe assente nel caso in cui proprietario “fosse messo davanti al fatto compiuto” dell’occupazione indiretta.
Ad avviso della Crte Edu risultavano, dunque, violati i principi di certezza del diritto e dell’effettività della tutela giurisdizionale.
Più in particolare l’istituto dell’occupazione acquisitiva è valsa all’Italia non poche pronunce di condanna da parte della Corte Edu in applicazione dell’art.1 del Primo Protocollo aggiuntivo.
Si tratta di un istituto di creazione pretoria in forza del quale la PA occupa un suolo privato per la realizzazione di un’opera di pubblica utilità in assenza ab initio del provvedimento autorizzatorio o per decorso dei termini di efficacia dello stesso, e ne acquista la proprietà a titolo originario per effetto della trasformazione irreversibile del suolo stesso.
La Corte Edu non contesta l’adozione di una legge formalmente intesa ai fini di un possesso legale del terreno da parte della PA. Non vi è infatti una riserva di legge. Tuttavia prende le distanze dalla posizione della Corte di cassazione e Costituzionale, inclini a riconoscerne la legittimità, perché non contrasta con le norme convenzionali, in quanto vi è una dichiarazione di pubblica utilità ed è la trasformazione irreversibile a non consentire più la restituzione del terreno al privato.
La Corte di Strasburgo ha ribadito già nel 2000 come nessuno possa esser privato della sua proprietà se non per un interesse pubblico, bilanciando la necessità di realizzare un interesse generale e l’esigenza di tutela dei diritti fondamentali dell’individuo, e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. In particolar modo, sotto quest’ultimo aspetto la Corte europea ha denunciato come un comportamento illegale, in genere sanzionato, dia vita a una fattispecie acquisitiva sottratta alle garanzie procedimentali e al principio del contraddittorio. A ciò si aggiungono pericolose oscillazioni interpretative sulla quantificazione del danno e la liquidazione delle indennità riparatorie ritenute insufficienti a ristorare i privati. Tutto ciò costituisce, secondo la Corte europea, una sproporzionata interferenza nel diritto domenicale.
Attività materiale integrante addirittura un illecito extracontrattuale è costituita dall’occupazione usurpativa. Anche questo è un istituto di creazione pretoria elaborato dalla cassazione. Si caratterizza per una dichiarazione di pubblica autorità assente , o annullata successivamente, o divenuta inefficace per inutile decorso dei termini. Stante la carenza del necessario collegamento funzionale tra la dichiarazione di pubblica utilità e la realizzazione dell’opera integra un illecito extracontrattuale, dando luogo a una carenza di potere in concreto della PA. è un’attività totalmente illegale dalla quale non deriva un effetto traslativo; il proprietario può scegliere i normali rimedi petitori e possessori a difesa della proprietario, salvo il rimedio risarcitorio.
La Corte EDU ha escluso la compatibilità con la Convenzione delle espropriazioni indirette, in quanto il quadro normativo interno di carattere essenzialmente giurisprudenziale non dava regole sufficientemente accessibili, precise e prevedibili. Inoltre, non è compatibile con il principio di legalità un meccanismo che consente di trarre beneficio da una situazione illegale.
Sul piano rimediale la Corte europea ha rilevato che la restituzione del bene costituisce la forma più adeguata di riparazione ma non esclude la compensazione per equivalente del valore integrale del bene, laddove il primo rimedio non fosse praticabile in concreto. Dunque, in primis la Corte Edu predica di evitare qualsiasi tipo di occupazione non a norma, di sopprimere gli ostacoli giuridici che impediscono la restituzione del terreno. Se questa dovesse essere una soluzione impraticabile lo Stato dovrebbe garantire il pagamento di una somma corrispondente al valore che avrebbe la restituzione stessa in natura e nel contempo adottare misure adeguate per concedere il risarcimento per le perdite subite
Dunque, nel tentativo di adeguarsi ai principi della CEDU che escludono espropriazioni indirette o sostanziali in assenza di un titolo legale idoneo, il legislatore ha introdotto all’art.43 t.u.espr. l’occupazione provvedimentale o acquisizione sanante con lo scopo di fornire una legale via d’uscita alle frequenti situazioni di illegalità stratificate nel tempo. La norma è stata poi dichiarata incostituzionale e sostituita con l’art.42 bis che ha inoltre riformulato la fattispecie.
L’art. 43 attribuiva alla Pa il potere discrezionale di acquisire in sanatoria con un atto ablativo formale la proprietà di aree occupate nell’interesse pubblico in carenza di titolo, escludendo che un mero fatto potesse determinare la detta acquisizione.
L’art. 43 affidava altresì all’amministrazione una potestà valutativa discrezionale avente a oggetto la restituzione del bene o la sua acquisizione sanante.
L’occupazione acquisitiva e quella usurpativa venivano, dunque, sostituite dall’occupazione provvedimentale.
L’art.42 bis, definito come una procedura ablativa sui generis e semplificata, assolve oggi alla funzione di ricondurre a legalità situazioni illegittime, in quanto deficitarie di valido ed efficace provvedimento di esproprio dichiarativo della pubblica utilità, senza prevedere una sanatoria per espropriazioni indirette, quindi vietate.
L’istituto è connotato da peculiari e autonomi presupposti consistenti in attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che giustificano l’acquisizione del bene per mantenere l’opera pubblica che ivi sorge. Deve recare l’indicazione delle circostanze che hanno condotto all’indebita utilizzazione dell’area, la data di inizio nonché l’ammontare dell’indennizzo, il cui pagamento dovrà avvenire entro 30 giorni.
L ’istituto in questione è assistito dalle stringenti garanzie dettate dalla L.241/90, in quanto l’atto di acquisizione ha natura espressamente provvedimentale, dunque è autoritativo e imperativo. Deve emergere in modo chiaro che l’apprensione coattiva si pone come extrema ratio, non essendo ragionevolmente praticabili strade alternative.
Quanto alla misura dell’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale subito dal privato, questo sarà valutato in rapporto al valore venale al momento del trasferimento, maggiorato della componente non patrimoniale con salvezza di ulteriori possibili voci di danno che il proprietario dovrà provare.
Si ammette, quindi, il ristoro dei danni morali, il che pone la normativa in una prospettiva sicuramente innovativa.
Trattandosi di una obbligazione da illecito extracontrattuale e, dunque, di un debito di valore tali somme andranno rivalutate secondo gli indici Istat.
Si impone, inoltre, il riconoscimento del danno da lucro cessante, costituito dalla possibilità di far fruttare la somma stessa; tale danno, tenuto conto del tempo trascorso e del graduale mutamento del potere di acquisto della moneta, potrà liquidarsi in via equitativa nella misura degli interessi legali sulle somme rivalutate anno per anno a decorrere dalla data dell’illecito.
La Pa avrà il potere/dovere di disporre l’acquisizione o la restituzione dell’area, previo ripristino dello stato anteriore. Se questa non fosse realizzabile, dovrà motivarlo in maniera specifica, senza fare riferimento a generiche difficoltà operative.
Dunque, l’art.42 bis t.u. espr. riporta l’azione amministrativa nell’alveo della legalità in quanto conforme ai principi di legalità sia per l’ordinamento nazionale che per quello sovranazionale.
Anche l’art.42 bis è stato sottoposto al vaglio del Giudice delle leggi, ma ne uscito indenne. Non sono state accolti i dubbi sulla presunta legalizzazione dell’illegale, ossia della reintroduzione dell’acquisizione sanante, né della tacciata elusione delle garanzie dell’art.42 Cost.. Nel 2015 la Consulta ha dichiarato la questione infondata, ribadendo il carattere non retroattivo della norma, che pertanto andrà applicato sì a situazioni anteriori alla sua entrata in vigore, purchè non ancora esauriti. Inoltre, ha sottolineato la innovazione della valutazione della attualità e della prevalenza dell’interesse pubblico e lo stringente obbligo motivazionale.
Infine, non può non darsi conto anche della cd. rinuncia abdicativa, anch’essa di origine pretoria, oggetto di recentissime pronunce dell’Adunanza Plenaria nel 2020, la n.2 e la n.4, che riprendono e applicano i principi e i valori contenuti nella Cedu.
La rinuncia abdicativa del diritto di proprietà, dunque, rappresenta una forma di espropriazione indiretta, in quanto atto implicito nella proposizione, da parte di un privato illegittimamente espropriato, della domanda di risarcimento del danno per equivalente monetario derivante dall’illecita occupazione da parte della PA, a fronte della irreversibile trasformazione del fondo. Secondo le menzionate sentenze, quindi, è priva di base legale in un ambito in cui il rispetto del principio di legalità è richiamato sia dall’art. 42 Cost che dal diritto europeo.
Si pone, infatti, sulla falsariga della citata occupazione acquisitiva, la quale non può trovare spazio nel nostro ordinamento a seguito delle ripetute pronunce della Corte Edu in riferimento all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale.
Inoltre, non spiega la vicenda traslativa in capo alla PA, alla quale di fatto viene imposto di subire un effetto traslativo per la sola proposizione della domanda risarcitoria predetta. Infatti, se l’atto abdicativo può essere considerato astrattamente idoneo a determinare la perdita della proprietà privata, non è altrettanto idoneo a farla acquisire in capo alla PA. L’ablato può anche essere più interessato a conseguire una utilità monetaria a fronte di un terreno ormai divenuto inservibile, svilito dall’occupazione illegittima. Tuttavia, detto effetto traslativo non può essere imposto all’Autorità espropriante seguendo un iter così tortuoso e artificioso.
Infine, le predette sentenze rimarcano come difettino nel caso di specie i requisiti per i provvedimenti impliciti, pure ammessi nel diritto amministrativo. Anche in assenza di un provvedimento formale, la Pa può determinarne univocamente i contenuti sostanziali o attraverso un comportamento conseguente o determinandosi in una direzione non ambigua . Tuttavia, ciò vale solo per gli atti amministrativi, non anche per quelli del privato. Non si può correttamente desumere dalla proposizione di una domanda risarcitoria l’univoca volontà di rinunciare a un bene. Il ricorso giurisdizionale, poi, è sottoscritto dal difensore e non dalla parte proprietaria che è l’unico soggetto legittimato ad abdicare al bene. Infine, il mandato difensivo che correla il ricorso non contiene neppure implicitamente una procura a vendere o a rinunciare.
Alla luce di quanto argomentato sinora, il provvedimento ablativo disciplinato dall’art.42 bis t.u.espr. ha sicuramente il pregio di aver eliminato definitivamente il fenomeno delle espropriazioni indirette riparando al deficit strutturale evidenziato dalla Corte Edu, ed applicando proprio i principi da sempre enunciati dalla stessa Corte europea, quindi, le tutele ivi espresse.
Con particolare riferimento al tema che in questa sede ci occupa, è stato riconosciuto che l’art.42 bis contiene la soluzione definitiva ed equilibrata al fenomeno delle espropriazioni indirette, in quanto prevede l’adozione di un provvedimento formale dal carattere non retroattivo, con il quale si rinnova la valutazione, l’attualità e la prevalenza dell’interesse pubblico a disporre l’acquisizione, correlato a uno stringente obbligo motivazionale.
Dunque, rappresenta la via legale d’uscita a fronte di illeciti già verificatisi; è esaustivo e autosufficiente e rappresenta la concretizzazione dei principi espressi dalla CEDU in tema di inviolabilità della proprietà privata.