La prova della causalità materiale nella responsabilità contrattuale
L’esistenza e la prova del nesso causale tra la condotta dell’agente e il danno verificatosi consentono a quest’ultimo di ricevere adeguato ristoro.
Tale regola vale sia in ambito di illecito contrattuale che di illecito aquiliano; in quest’ultimo caso l’indagine sarà più complessa perché ruota attorno al concetto di ingiustizia del danno.
In tema di illecito contrattuale, invece, l’accertamento dovrà appurare la sussistenza dell’inadempimento e che il danno sia conseguenza diretta e immediata dell’inadempimento stesso.
Il legislatore del 1942 ha scandito una duplice sequenza causale, ribattezzata poi dalla dottrina nella distinzione tra causalità di fatto o materiale, e causalità giuridica ex art. 1223 cc.
In materia contrattuale la causalità di fatto attiene al nesso eziologico tra la condotta del debitore e l’evento-inadempimento e dovrà verificare se questo è imputabile o meno al debitore e in che misura, in caso di concorso di cause.
La causalità giuridica riguarda, invece, l’indagine tra l’evento-inadempimento e le conseguenze dannose, ossia i pregiudizi, direttamente riconducili all’evento derivati al creditore.
Nel codice civile manca una definizione e la relativa disciplina autonoma della causalità materiale.
L’art.1218 cc impone il risarcimento del danno al debitore che non abbia eseguito esattamente la sua prestazione, salvo la prova di una causa a lui non imputabile.
La norma descrive il primo dei due momenti causali, ossia quello materiale che intercorre tra la condotta dell’agente e il suo inadempimento.
Si è cercato, perciò, di supplire alle mancanze definitorie in ambito civilistico ricorrendo alle diverse teorie elaborate nel diritto penale, nonostante le rimarchevoli differenze tra le due discipline.
Gli artt. 40 e 41 cp descrivono la teoria condizionalistica, in base alla quale la condotta è causa dell’evento se questo non si sarebbe verificato in assenza della prima. Il giudice tramite il cd giudizio controffattuale procederà ad eliminare mentalmente la condotta umana per poter constatare se l’evento si sarebbe ugualmente avverato.
Tuttavia, l’applicazione della suddetta teoria avrebbe comportato un regresso all’infinito; si è cercato, dunque, di apportare dei correttivi che mitigassero la regola condizionalistica.
Quindi, hanno fatto il loro ingresso la teoria della causalità adeguata e della causalità umana. La prima esclude dalla sequenza causale le conseguenze atipiche e imprevedibili, la seconda quelle eccezionali e incontrollabili.
A tentare di chiarire i rapporti di verificazione degli eventi sono state richiamate anche le leggi di copertura scientifica, ossia la spiegazione causale di un evento va fornita sulla base della migliore scienza di quel dato momento storico. Per stabile se un antecedente possa essere la causa di fatto posteriore, sarà necessario accertare che rientri nell’insieme di accadimenti che portano a quel tipo verificatosi sulla base di una successione conforme descritta da una legge scientifica.
Tuttavia, sovente la spiegazione scientifica non collima con quella processuale; in ambito civilistico il rigore dell’accertamento penalistico si risolve nella probabilità relativa di un certo decorso causale.
In campo penalistico, invece, la eventuale restrizione della libertà personale quale pena da comminare all’imputato impone di raggiungere una certezza processuale altamente credibile, “al di la’ di ogni ragionevole dubbio”.
Dunque, in ambito contrattuale saranno addebitate tutte le conseguenze che “più probabilmente che non” non si sarebbero verificate in assenza di quella condotta illecita.
Tratteggiate le diverse teorie causali, è opportuno ripartire dall’art.1218 cc.
La norma attiene alla cd responsabilità strutturale, ossia al nesso condotta-inadempimento e individua il duplice ruolo dell’obbligazione risarcitoria: integrativo e sostitutivo. Se il debitore tarda nell’adempimento e l’obbligo risarcitorio si aggiunge alla prestazione; se il debitore si rende del tutto inadempiente l’obbligazione risarcitoria si sostituisce a quella originaria in adesione al meccanismo della cd perpetuatio obligationis.
Dunque, il creditore che agisca per il risarcimento del danno a fronte dell’inadempimento del debitore ha l’onere di fornire ex art. 2697 cc la prova del suo credito, ossia la fonte di questo, il danno-conseguenza e il nesso causale. L’inadempimento dovrà essere semplicemente allegato.
Il debitore, invece, dovrà fornire la prova di aver esattamente adempiuto alla prestazione dovuta.
Se fosse contestato l’inadempimento di obbligazioni negative, sarebbe il creditore a dover fornire la prova del proprio diritto di credito e anche dell’inadempimento.
Graverebbe sul debitore l’onere di provare la presenza di una causa di giustificazione idonea ad esonerarlo dalla responsabilità contrattuale.
Le Sezioni Unite della Cassazione nel 2001 hanno adottato la superiore ricostruzione applicando i principi della vicinanza della prova e della persistenza presuntiva del diritto.
Il primo predica che è onerato di provare chi è ha maggior facilità di conseguire la prova di un fatto dedotto in giudizio; il secondo che il diritto di credito si presume sussistente fino a che non venga dimostrato il contrario con l’estinzione tramite il pagamento dello stesso.
In ambito medico, la declinazione dei predetti criteri ha implicato che il paziente-creditore dovesse solo allegare l’inadempimento, e non provarlo; mentre il medico-debitore dovesse provare di aver esattamente eseguito la propria prestazione professionale.
Nel 2008 sempre le Sezioni Unite della Cassazione hanno precisato che il nesso causale si collega alla prova dell’errore terapeutico o diagnostico del medico-debitore, pertanto il paziente dovrà allegare il predetto errore causalmente rilevante il quale a sua volta consiste nel contratto o il contatto sociale, ossia il suo titolo, e nella prova del danno subito, quindi o morte o esito nefasto.
Il medico, dal canto suo, dovrà vincere i menzionati argomenti provando l’assenza di errori o la loro irrilevanza causale.
In diverse occasioni recentemente le sezioni semplici hanno disatteso l’argomentazione superiore, addossando al danneggiato la prova della sussistenza del nesso causale tra l’aggravamento della patologia e la condotta del medico. Questi deve dimostrare ai sensi dell’art. 1256 cc l’impossibilità della prestazione derivante da una causa a lui non imputabile, ossia che la causa stessa è stata imprevedibile e inevitabile con l’ordinaria diligenza. Deve, dunque, fornire la prova di una fattispecie estintiva della obbligazione, ossia di un diverso nesso causale.
Si evince da quanto argomentato sopra come l’inadempimento in sé non produca automaticamente l’evento lesivo. Occorre accertare il nesso tra la condotta e il pregiudizio sotto il duplice aspetto della causalità materiale e giuridica.
La prima non consente il risarcimento delle conseguenze non immediate, la seconda prevede l’esclusione integrale o l’integrale addossamento sull’agente della responsabilità.
Viene, pertanto, scissa la causalità materiale come elemento costitutivo della responsabilità del debitore, che deve essere provata dal creditore, da quella estintiva e x art. 2697, co.2, cc oggetto di prova liberatoria da parte del detto debitore.
Alcuni rilievi critici sono stati mossi alle ultime ricostruzioni giurisprudenziali.
Non sembra conciliabile far provare al creditore il primo nesso causale, ovvero che un errore del medico abbia generato l’esito infausto, e al debitore la seconda parte, ossia che il medico dimostri l’impossibilità di evitare l’evento di danno.
L’art. 1218 cc prescrive una presunzione relativa di responsabilità a carico del debitore, la quale a sua volta presuppone un inadempimento causale anche per le obbligazioni professionali, in quanto l’evento danno è l’inadempimento.
Tuttavia il recente indirizzo giurisprudenziale sostiene che l’inadempimento non debba essere necessariamente causale, ben potendo intervenire fattori esterni quali cause concomitanti alla condotta del medico-debitore. Dunque, questi potrà provare l’intervento di circostanze non evitabili né prevedibili ai sensi degli artt. 1256 e 1463 cc.
In spregio al favor victimae, la posizione del paziente diviene in tali termini estremamente complicata. Graverà, infatti, sul creditore la prova della causalità ignota, anche per interventi di natura semplice.
Il fattore eziologicamente più probabile è l’errore medico, certamente “non vicino” al paziente ignaro di competenze medico-scientifiche e lontano dalla sala operatoria.
Un regime siffatto appare simile a quello applicabile in sede extracontrattuale, visto che il debitore dovrà provare il nesso causale tra l’evento-danno e la condotta del danneggiante. Ciò, infine, disattende la ratio della recente riforma della responsabilità sanitaria prevista dalla L.24/2017, la quale ha impostato la responsabilità della struttura sanitaria sui binari della responsabilità contrattuale, e la responsabilità del medico su quelli della responsabilità aquiliana