La scriminante putativa culturale- parte seconda
Le cause di giustificazioni o cause di liceità o scriminanti sono particolari situazioni in presenza delle quali un fatto che altrimenti costituirebbe reato non è tale perché la legge lo impone, o lo consente, o lo giustifica.
Il codice le riconduce nell’alveo delle clausole di esclusione della pena ex art. 59 , I co., cp., tuttavia è ormai pacifico che costituiscano una categoria autonoma dal punto di vista concettuale e funzionale. Essa è descritta dagli artt. 50-54 cp, riferiti alle fattispecie comuni contenute nella parte generale, o a ipotesi speciali contemplate nella parte speciale o in singole leggi speciali.
Particolarmente dibattuta in dottrina e giurisprudenza è l’esistenza di scriminanti diverse e ulteriori rispetto a quelle tipiche, dunque tacite, atipiche o non codificate. Si oscilla tra chi giustifica le attività pericolose come quella medica o sportiva in virtù della loro utilità sociale. Se si vietassero, si bloccherebbe un intero Paese.
E chi propone per una cauta applicazione analogica, ancorando le fattispecie atipiche a quelle nominate, al fine di non violare il rpincio di legalità.
Il fondamento politico-sostanziale delle scriminanti è stato, dunque, individuato dalla dottrina maggioritaria nel bilanciamento di interessi in conflitto: quello protetto dalla norma incriminatrice e quello tutelato dalla causa di liceità. Se il secondo prevale sul primo, il fatto non è connotato negativamente per l’ordinamento giuridico che lo consente o addirittura lo impone.
Dal punto di vista logico-giuridico, invece, le scriminanti obbediscono al principio di non contraddizione, infatti uno stesso ordinamento non può imporre e contemporaneamente vietare un medesimo fatto.
La collocazione dogmatica delle cause di giustificazione muta profondamente a seconda che si aderisca ad una visione analitica del reato ispirata al modello bipartitico o tripartitico.
La teoria bipartitica, infatti, che scompone il reato in illecito oggettivo e colpevolezza, colloca le cause de quibus all’interno del fatto tipico, ossia conforme alla norma incriminatrice; le stesse devono essere assenti, dunque, negative perché esista un reato.
Sono un elemento costitutivo del fatto o meglio della sua tipicità, la quale, pertanto, dipende dall’assenza di una qualsiasi causa di liceità.
Per la teoria tripartita, ideata dal Beling, la causa di giustificazione è esterna al fatto, intermedia tra questo e la colpevolezza. Sono tre momenti diversi e sequenziali, la valutazione in termini di antigiuridicità può esser fatta solo dopo il riscontro oggettivo della tipicità del fatto.
Un fatto può essere tipico ma non antigiuridico, e quindi giustificato.
Sul piano processuale, in applicazione del principio “in dubio pro reo” l’imputato non è gravato di un vero e proprio onere probatorio ma di allegazione, secondo l’impostazione giurisprudenziale risalente al vecchio codice di procedura penale.
Nella vigenza del nuovo codice, invece, l’art. 530 cpp prevede espressamente che il giudice pronunci una sentenza di assoluzione quando vi sia la prova o il dubbio della presenza di una causa di giustificazione.
Rimane aperta la questione sulla distribuzione dell’onere della prova, sebbene il principio dispositivo ex art. 190 cpp sia stato mitigato dai poteri integrativi in ordine alla prova attribuiti al giudice dagli artt. 507 e 603 cpp..
L’art. 358 cpp contempla sì l’obbligo per il pm di compiere accertamenti su fatti e circostanze favorevoli all’indagato, ma nella pratica sarà quest’ultimo a doversi preoccupare di far accertare al giudice l’esistenza di una causa scriminante. Accedendo alla ricostruzione delle scriminanti come elementi negativi del fatto, potrebbe esser troppo gravoso il compito dell’accusa di prova negativa e quasi diabolica di tutte le scriminanti contemplate dall’ordinamento.
La superiore ricostruzione può esser mitigata dal ritenere che la mancanza di prove positive dell’assenza delle esimenti non conduce necessariamente alla mancanza di prova del fatto illecito, se si considerano esimenti e tipicità due momenti differenti del reato.
Il giudicato penale coinvolge anche le cause di giustificazione a prescindere dalla circostanza che il giudice si sia espresso sulla sussistenza delle stesse. Infatti, poiché le scriminanti rappresentano elementi negativi del fatto, le prime coinvolgono per necessità concettuale l’esistenza stessa del reato.
Nessuna responsabilità di tipo risarcitorio può derivare dal fatto scriminato, ritenuto lecito per l’intero ordinamento. Dunque, la sentenza penale di assoluzione avrà efficacia di giudicato nel giudizio civile e amministrativo per le restituzioni o il risarcimento del danno promosso dal danneggiato se sussistono le condizioni previste dall’art. 652 cpp., ossia se la sentenza è stata resa a seguito di dibattimento, se il danneggiato si è costituito o è stato posto in condizione di costituirsi parte civile; infine, se il danneggiato non ha esercitato l’azione civile in sede civile ex art. 75, co.II, cpp.
I confini del principio di legalità precludono il riconoscimento di esimenti non codificate; le ipotesi atipiche dovranno essere ricondotte nell’alveo di quelle espressamente contemplate dal codice.
Il codice penale, tuttavia, non menziona espressamente le scriminanti, ma racchiude in un’unica formula tre categorie dogmatiche eterogenee, che mancano di un principio ispiratore unitario ma che sono accomunate dal solo fatto di escludere la punibilità, le scriminanti, le scusanti o cause di esclusione della colpevolezza, le cause di esclusione della sola pena o di non punibilità in senso stretto.
Le prime rendono lecito un fatto tipico, le seconde non colpevole un fatto tipico e antigiuridico, le terze rendono non punibile un fatto tipico antigiuridico e colpevole.
Se per le scriminanti l’attenzione dell’interprete è incentrata sul fatto nella sua dimensione oggettiva, si applicano anche se non conosciute dall’agente e a tutti i correi, nelle scusanti il focus è sull’agente e sull’elemento soggettivo del reato; dunque, intervengono solo se il soggetto attivo è a conoscenza della loro concreta presenza e non si estendono ai concorrenti. Esse influiscono sul personale processo motivazionale, costituiscono circostanze anormali, espongono l’agente a una particola pressione psichica. I riflessi psicologici rendono inesigibile il rispetto della regola posta dall’ordinamento. Il fatto mantiene il suo disvalore oggettivo, ma muta il regime giuridico.
Per ragioni di opportunità politica, di pratica convenienza politico-criminale, le cause di esclusione della pena inibiscono appunto l’applicazione della stessa, ma non incidono sull’esistenza del reato, al quale sono esterne. Salvaguardano dei contro -interessi, hanno rilevanza oggettiva e si applicano solo all’agente per la sola ragione di essere oggettivamente presenti, a prescindere dalla conoscenza o meno. Nella eventuale formula assolutoria si dovrà indicare specificamente il motivo della non punibilità ex art. 530 cpp.
Da più parti è ammessa l’applicazione analogica in bonam partem delle cause di giustificazione, in quanto ossequiosa dei principi generali dell’ordinamento e non confliggente con l’art. 14 disp. preleggi al codice civile.
Esclusa, invece, per le cause di non punibilità e delle scusanti per i rilievi svolti in precedenza.
In virtù dell’estensione oggettiva delle scriminanti, nessuno potrà essere penalmente perseguito per quel fatto, in quanto le dette escludono tipicità e antigiuridicità di quest’ultimo. È pertanto ininfluente la conoscenza o meno, mentre rileva l’errore sulla loro esistenza come attestato dalla disciplina dell’art. 59 cp sulla scriminante putativa.
Il codice Rocco ha equiparato la situazione di chi agisce confidando erroneamente ma senza colpa nell’esistenza di una scriminante, alla situazione nella quale quest’ultima è realmente presente.
La non punibilità è legata al profilo della colpevolezza, infatti se l’errore dipende da colpa, la punibilità stessa non è esclusa se la legge prevede quel fatto come delitto colposo.
La disciplina dell’art. 59 cp è simmetrica a quella dettata dall’art. 47 cp in tema di errore sul fatto.
Per avere efficacia scusante deve cadere sui presupposti di fatto che integrano la scriminante o su una norma penale extrapenale integratrice di un elemento della fattispecie giustificante.
La scriminante putativa esclude il dolo, poiché l’agente si è rappresentato e ha voluto un fatto diverso da quello contemplato dalla norma incriminatrice. La condotta antigiuridica sarà, pertanto, sanzionata penalmente se il fatto è previsto nella declinazione colposa ed è dipeso da negligenza, imprudenza o imperizia.
In dottrina e giurisprudenza si ammette che la disciplina sull’errore sulle scriminanti si applichi anche alle contravvenzioni.
Infine, per meglio delineare l’istituto delle scriminanti, appare opportuno raffrontarle anche con le cause di estinzione del reato. Ai sensi dell’art. 182 cp. la morte del reo, l’amnistia, la prescrizione, etc. rappresentano fatti giuridici posteriori alla perfezione del reato, i quali risolvono ex tunc gli effetti del reato stesso. Rilevano solo per coloro ai quali si riferiscono, salvo che la legge disponga diversamente.
Le cause di giustificazione, dunque, concorrono a delineare i limiti di liceità di una condotta che altrimenti sarebbe vietata dall’ordinamento. Nella prospettiva del bilanciamento degli interessi in gioco l’agente potrebbe superarli, dunque la valutazione del suo comportamento potrebbe virare verso la colpevolezza, dovendosi accertare la rimproverabilità dello stesso.
Orbene, all’art. 55 cp l’eccesso nelle scriminanti è contemplato espressamente. I presupposti di queste ultime devono essere necessariamente tutti presenti, è richiesto inoltre l’involontario ma colposo travalicamento dei limiti segnati dalla norma permissiva, della proporzione interna della scriminante, non l’intera scriminante come nel caso disciplinato dall’art. 59, VI c., c.p.
Il reato dovrà essere punibile a titolo di colpa. L’eccesso, dunque, non riguarda l’evento ma i confini della scriminante.
Se l’eccesso fosse deliberato, volontario ancorchè reattivo nei confronti di una violenza subita, l’agente incorrerebbe in una piena responsabilità penale, e dovrebbe rispondere dell’azione-reato commesso a titolo di dolo.
Questione estremamente delicata è la valenza dell’esercizio di un diritto ex art. 51 cp., quale tipologia di scriminante nella sua accezione culturalmente orientata, in uno Stato multiculturale e multietnico come il nostro.
La causa di giustificazione contemplata all’art. 51 cp è espressione del principio di non contraddizione dell’ordinamento giuridico: non può essere considerato reato un fatto che costituisce esercizio di una facoltà riconosciuta dall’ordinamento.
La suddetta previsione non enuncia, però, criteri utili per risolvere eventuali conflitti tra norme presupposte. Pertanto, è considerata una norma in bianco con la funzione recettiva di regole e contenuti provenienti da altri settori dell’ordinamento. Da alcuni autori è addirittura ritenuta fuorviante e superflua in quanto crea l’impressione di un contrasto tra norme che si risolve nella prevalenza di una di queste.
Quanto al novero dei diritti scriminanti, controversa è l’inclusione dell’interesse legittimo nel concetto di “diritto” suscettibile di concreto esercizio. Pacificamente ammessi i diritti soggettivi, le facoltà, i diritti potestativi, e ogni attività giuridicamente autorizzata.
Tra le fonti del diritto scriminante si includono la Costituzione, la legge ordinaria, anche extrapenale, i regolamenti, le leggi regionali i provvedimenti amministrativi, i contratti di diritto privato.
I limiti interni del diritto scriminante, indicati da specifiche norme o ricavabili, indicano il valico che non può essere oltrepassato per poter beneficiare dell’art. 51 cp. Comune a tutti i diritti è il limite posto dagli artt. 392 e 393 cp. , che puniscono chi vuol fare valere le proprie ragioni magari anche legittime con la violenza su cose o persone.
In ambito civilistico l’art. 833 cc. disciplina l’abuso del diritto, in quanto vieta gli atti cd. emulativi ; è l’unica norma di carattere generale che punisce gli abusi del titolare di un diritto, il quale ha come unico scopo quello si arrecare molestie al proprio vicino.
Quanto ai limiti esterni, i detti sono da individuarsi nelle altre norme di pari dignità che segnano un conflitto con il diritto scriminante. Il criterio della fonte prevalente nonché quello del bilanciamento degli interessi pongono evidenti problemi allorquando si tratti di diritti riconosciuti dalla Costituzione.
Sicchè, estremamente delicato e affascinante è il tema del cittadino straniero che nel territorio italiano compia attività configurabile come reato dal nostro ordinamento ma riconosciuta lecita nel suo stato di appartenenza.
Il problema è di drammatica attualità, legato ai flussi migratori che interessano anche la nostra penisola e tutte le società moderne, definite “ porose”, cioè permeabili ad altre culture già da Taylor.
Sul piano dogmatico è un tema d’avanguardia per il diritto penale quello dei reati culturali e della “cultural defence” di elaborazione dottrinale.
In assenza di definizione legislativa, la dottrina delinea i primi come frutto di un conflitto normativo, di “interlegalità”, tra sistemi giuridici differenti ma soprattutto configgenti tra loro.
La casistica è varia e terrificante, e coinvolge come argomentato sopra i diritti più sacri dell’essere umano; ricomprende omicidi, lesioni personali e maltrattamenti compiuti in ambito familiare in una concezione lata di ius corrigendi; reati sessuali ai danni soprattutto di donne e di minori, destinatari anche di atti verso parti intime benaugurati; mutilazioni femminili, scarificazioni, ossia cicatrici tribali che segnano l’appartenenza a un clan; violazioni dei diritti dell’infanzia, avvio precoce al lavoro, all’accattonaggio.
I reati in questione appartengono alla categoria dei reati “naturali”, che attentano ai diritti fondamentali dell’individuo, perciò di immediata percezione negativa secondo la nostra coscienza e la nostra scala di valori, a prescindere dunque da una norma scritta che ne disponga l’esistenza. Se la giurisprudenza italiana ha concesso rilevanza all’ignoranza inevitabile ex art. 5 cp., l’ha mostrata per i reati “artificiali”, ossia più tecnici, di creazione legislativa.
L’approccio integrazionista, come quello canadese che ha introdotto solo per le popolazioni degli Inut una sorta di organo giudicante, il cd sentencing circle, è disposto in via tendenziale ad accettare e includere le richieste identitarie, le specificità culturali. Si potrebbe, tuttavia, prospettare una società priva di identità culturale dominante o maggioritaria, sostituita da molteplici identità culturali con egual diritto di riconoscimento. Questo non deve contrastare con i principi cardine dell’ordinamento, anche di rango costituzionale, in tema di famiglia, di rapporti interpersonali di coppia, ivi compreso l’aspetto sessuale.
La prospettiva assimilazionista, come quella francese o quella italiana, si ispira ad una logica neutrale dello Stato di fronte alle differenze culturali, muove dall’assunto dell’approccio unidirezionale dell’inclusione in una società connotata da un’omogeneità culturale destinata a prevalere su quella d’origine.
Il rilievo ascrivibile dal diritto penale alle diversità culturali sostanzialmente consiste nel dare soluzione a un conflitto di norme ontologicamente diverse.
Si potrebbe riconoscere valore di esimente penale al comportamento vietato in Italia ma tollerato o addirittura obbligatorio nel paese natio dello straniero, al pari dell’esercizio del diritto corrispondente al nostro art. 51 cp. per richiamo alle consuetudini di certe popolazioni. Tuttavia, l’art. 8 disp. preleggi al codice civile ancorano l’applicazione di una consuetudine ad un preciso collegamento legislativo, che in questo caso è carente.
Privilegiando, invece, l’aspetto soggettivo, si potrebbe risolvere il problema ascrivendo rilievo all’assenza di consapevolezza del disvalore del fatto. L’autore della condotta andrebbe così assolto per difetto di dolo.
Si è anche esclusa l’operatività di un’altra scriminante, il consenso dell’avente diritto disciplinata all’art. 50 cp., sia pure affermato in un contesto subculturale. La volontà entra a far parte dell’ossatura del reato quale elemento imprescindibile. Il consenso deve abbracciare la condotta e l’evento, quale conseguenza del primo.
Deve essere libero, “validamente” prestato; informato di ogni particolare utile, e specifico, ossia manifestato per tutti i risultati puntualmente preventivati.
Nel caso che ci occupa manca proprio il carattere disponibile dei beni giuridici protetti, ossia i diritti inviolabili dell’uomo sanciti dall’art. 2 della Costituzione. Dunque, non è una causa di giustificazione applicabile ai reati culturali.
O ancora si è ipotizzato che l’unico criterio adoperabile possa essere la commisurazione in concreto della pena ex art.133 cp; impostazione questa seguita da parte della giurisprudenza.
Famoso è il cd caso Pusceddu anche se giudicato presso un tribunale tedesco, che nella valutazione della pena da comminare in concreto ad un giovane immigrato di origini sarde che aveva per settimane brutalizzato la propria fidanzata credendola fedifraga, concesse un’attenuante e uno sconto di pena in considerazione del fattore culturale. Le origini italiane, e in particolare sarde, secondo la corte giudicante, erano state la motivazione di tanta efferatezza. Il giudice tedesco, improvvisato antropologo, dimenticò che la cultura sarda è invero matriarcale, e che la Sardegna è la patria della giudicessa Eleonora d’Alborea, la quale intorno al 1330 promulgò la Carta de Logu, il primo codice europeo che riconosce la donna come soggetto di diritto.
In Italia e in molti ordinamenti, dunque, manca una norma generale che affronti il tema dei reati culturalmente motivati o orientati. È stato introdotto nel 2006 l’art. 583 bis cp che ha incriminato le mutilazioni genitali approvate da talune culture, nel 2003 l’art. 600 cp. e nel 2009 il 600 octies cp.; tuttavia, non esistono istituti di parte generale specificamente coniati per attenuare o elidere le conseguenze penali nelle quali incorre il soggetto attivo dei reati “culturali”.
I giudici italiani tendono a escludere che la diversità culturale possa assurgere ad esimente. La giurisprudenza ha innalzato una sorta di “sbarramento invalicabile”, teoria in base alla quale nessun sistema penale per rispetto alle tradizioni culturali o religiose può abdicare alla punizione di fatti che colpiscono o mettono in pericolo i beni di maggior rilevanza quali i diritti inviolabili dell’uomo.
La dottrina eccepisce problemi di scarsa definitezza al catalogo di diritti inviolabili, impermeabili alle opzioni culturali di fondo. Di recente la giurisprudenza ha sancito quale limite invalicabile il rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica ospitante, sottolineando come la libertà religiosa insegnata dall’art. 19 Cost. incontra il necessario rispetto della pacifica convivenza e sicurezza. Anche la giurisprudenza convenzionale sull’art.9 CEDU riconosce la legittimità delle limitazioni imposte a tutela dei diritti e delle libertà altrui. Non ammette alcuna rilevanza alla cultura di appartenenza ove siano violati i diritti fondamentali dell’uomo.
La Cassazione nei suoi più recenti arresti ha elaborato una sorta di procedura standardizzata di accertamento di determinati requisiti al fine di aiutare i giudici ad elaborare una motivazione delle sentenze più articolata e meglio argomentata in punto di motivazione culturale.
In primis, occorre procedere a una attenta valutazione del bene giuridico offeso, onde verificare il peso del disvalore della condotta che lo ha leso o messo in pericolo. In secundis, si dovrà esaminare e ponderare la norma culturalmente motivata, la sua vincolatività, la sua matrice religiosa o giuridica; se venisse rispetta solo da una minoranza del gruppo di appartenenza ciò sarebbe indice di consapevolezza della sua scarsa cogenza.
Infine, rileva il grado di inserimento dello straniero nel tessuto sociale del nuovo paese, il grado di perdurante attaccamento alla cultura di origine. Una difesa culturale è tanto più ragionevole opposta in quanto scarso è il grado di integrazione dell’imputato nel nuovo contesto socio-culturale.
Ciò ha riflesso anche nell’applicazione dell’aggravante dei futili motivi ex art. 61 n.1 cp., allorquando per esempio si è valutata la condotta di un islamico condannato per omicidio della figlia che aveva intrattenuto rapporti intimi prima del matrimonio.
Un filone giurisprudenziale non ha ritenuto motivo abietto l’aver agito in ossequio a un precetto religioso teso a salvaguardare l’onore della famiglia.
Altra parte della giurisprudenza, invece, ha ritenuto sussistente l’aggravante in un caso analogo, in quanto la determinazione criminosa è stata causata da uno stimolo esterno, lieve, banale e sproporzionato rispetto alla gravità del reato, anche in considerazione della fede islamica dell’imputato. Questi ha semplicemente dato sfogo a un proprio impulso criminale.
Ancora, di recente la Cassazione ha affermato che la futilità del motivo non possa essere esclusa dall’appartenenza dell’agente a un certo gruppo, dal momento che il modello comportamentale del menzionato gruppo si pone in forte contrasto con i valori fondamentali della persona.
La Suprema Corte ha ribadito la propria adesione alla suddescritta teoria dello “sbarramento invalicabile” arricchendola nel tempo di preziosi contenuti. Ha sostenuto, infatti, che in una società multietnica non sia possibile scomporre l’ordinamento in tanti statuti individuali quante sono le etnie che la caratterizzano. Pertanto, è fatto obbligo allo straniero che si stabilisce nel nostro Paese di verificare preventivamente la compatibilità dei principi personali a quelli che regolano il vivere comune del territorio nel quale si è scelto di vivere. Ciò in ossequio all’art. 3 della Costituzione, che sancisce come tutti i cittadini siano uguali davanti alla legge, qualunque sia il loro sesso, religione o razza.
Non è, pertanto, prospettabile una presunta buona fede, priva di qualsiasi addentellato normativo, a sostegno di asseriti diritti culturali, nemmeno nella forma dell’eccesso colposo nella scriminante.
Né può essere scusato il comportamento di uno straniero che, trasferitosi in un paese che sa essere differente dal proprio, continui a porre condotte violative delle leggi che lo governano.
Non si tratta di adoperare degli “atlanti culturali” , che non potrebbero mai esistere stante l’estrema liquidità e contaminazione delle culture. Tutt’al più potrebbe essere utile al giudice quale strumento di conoscenza della prassi culturale dell’imputato una sorta di perizia o consulenza culturale appunto per distinguere i casi di adesioni a prassi culturali da quelli di becero sfogo alle proprie passioni.
Alcuna scriminante, dunque, nemmeno putativa è ipotizzabile secondo quanto sostenuto in giurisprudenza.
L’ordinamento italiano consente l’inserimento dello straniero nel proprio tessuto sociale a condizione che lo stesso rinunci a tutte quelle tradizioni usi e costumi che si pongano in contrasto palese con il nostro sistema di valori e di diritto.