Il risarcimento della chance nel processo amministrativo
La responsabilità della Pubblica Amministrazione rinviene il suo fondamento costituzionale nell’art.28, il quale recita che:” i funzionari e i dipendenti dello Stato sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative degli atti compiuti in violazione dei diritti”. Inoltre, aggiunge che:”in tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”.
Ad una prima lettura sembra essere in primo piano la responsabilità personale del dipendente e solo in via subordinata quella dello Stato, che appare subordinata. L’interpretazione successiva in un’ottica più garantista, invece, l’ha qualificata solidale, in virtù del rapporto organico tra dipendente e amministrazione.
Nell’originaria impostazione il riconoscimento della responsabilità degli apparati pubblici era un istituto predisposto a rafforzare la tutela dei diritti fondamentali, soprattutto delle libertà civili. Ciò è dimostrato dalla collocazione dell’art. 28 nel Titolo I, sui rapporti civili, della Parte I, rubricata:”Diritti e doveri dei cittadini”; nonché dal dato testuale che fa riferimento agli “atti compiuti in violazione dei diritti”. Tale formulazione ha comportato per lungo tempo una netta differenziazione delle tutele esperibili in base alle posizioni giuridiche soggettive lese. È stata riconosciuta fin da subito la risarcibilità dei danni causati da lesioni a diritti soggettivi, mentre la tutela risarcitoria per lesioni a interessi legittimi è stata il frutto di un lungo e travagliato percorso. La svolta è stata segnata dalla notissima sentenza delle Sezioni Unite di Cassazione n.500/1999, la consacrazione definitiva è stata celebrata nel codice del processo amministrativo.
L’impostazione originaria della giurisprudenza era fortemente ancorata alla norma dell’allegato E della L. 2248/1865, il quale escludeva in radice il risarcimento degli interessi legittimi. Si valorizzava la concezione soggettiva dell’illecito aquiliano, secondo la quale il danno ingiusto presupponeva la lesione di una situazione soggettiva riconosciuta e tutelata dall’ordinamento nella forma di un diritto perfetto.
Sul versante processuale, l’ostacolo era dato dai poteri del giudice amministrativo, il quale poteva conoscere dell’interesse legittimo e annullare l’atto lesivo, ma era sfornito del potere di condannare al risarcimento del danno.
Si era, dunque, creato il dogma della irrisarcibilità degli interessi legittimi, che nel tempo si è sgretolato grazie all’ampliamento della tutela risarcitoria a posizioni sostanzialmente di interesse legittimo, appunto, ma che formalmente venivano qualificate di diritto soggettivo.
In particolare, prima del 1999 la giurisprudenza aveva iniziato a riconoscere la risarcibilità degli interessi oppositivi riconducendoli nel novero dei diritti suscettibili di affievolimento. Applicando uno schema bifasico, il giudice amministrativo interveniva ad annullare l’atto lesivo, il diritto del cittadino si sarebbe riespanso, e il giudice ordinario avrebbe concesso il risarcimento del danno al diritto illegittimamente compresso.
Nella stessa ottica, si iniziò a riconoscere i cc.dd. diritti affievoliti ad origine, ovvero le posizioni giuridiche, in realtà interessi legittimi, proprie di chi, destinatario di un provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica, fosse stato interessato da un provvedimento di secondo grado privativo dei benefici precedentemente concessi.
In questo caso, la giurisprudenza era ricorsa alla teoria della riespansione del diritto originato dal provvedimento di secondo grado poi annullato.
Tuttavia, l’incongruenza del sistema era palese, poiché situazioni simili ricevevano tutele differenti. Il destinatario di un provvedimento favorevole poi illegittimamente annullato avrebbe potuto chiedere la tutela risarcitoria, mentre questa gli sarebbe stata preclusa se il provvedimento favorevole fosse stato negato ab origine, come nel caso di illegittimo diniego di rilascio di permesso a costruire. Per la sola ipotesi di lesione da fatto di reato veniva riconosciuta la risarcibilità in quanto l’ingiustizia del danno è in re ipsa e non doveva essere riconnessa alla violazione di un diritto soggettivo.
Sul piano normativo e sulla spinta del diritto comunitario, furono realizzate le prime svolte importanti. Infatti, in tema di appalti fu sancita nel 1992 la ristorabilità della violazione di posizioni lese da atti compiuti in spregio al diritto comunitario appunto.
Inoltre, il d.lgs. 80 del 1998 delimitò la giurisdizione del giudice amministrativo per blocchi di competenza, non per posizioni soggettive, attribuendo a questi il potere di conoscere le questioni risarcitorie relative alle materie di sua giurisdizione esclusiva.
Il formale riconoscimento della risarcibilità degli interessi legittimi avvenne grazie alla storica sentenza n.500 del 1999, che rilesse l’art. 2043 cc e la nozione di danno ingiusto, e aderì all’impostazione sostanzialistica dell’interesse legittimo.
Secondo la Cassazione l’art. 2043 cc è una norma primaria e generale che sanziona con il risarcimento la violazione di ogni danno ingiusto, intendendo ricomprendere qualsiasi lesione a un interesse rilevante per l’ordinamento. Non solo a diritti soggettivi perfetti.
Occorre, inoltre, che la lesione dell’interesse sia collegato un bene della vita e che sia meritevole di tutela. Il danno è ingiusto se e solo se spettava l’ottenimento di quel bene tramite un provvedimento favorevole al quale è correlato. Al giudice amministrativo compete il potere di conoscere le questioni relative al risarcimento del danno nei casi di giurisdizione esclusiva e di legittimità.
L’art. 7 cpa consacra definitivamente la risarcibilità dei danni cagionati da lesione di interessi legittimi a causa dell’illegittimo esercizio del potere amministrativo o per il mancato esercizio dell’attività obbligatoria da parte della p.a..
Di non facile soluzione è apparsa poi la questione relativa alla natura giuridica della responsabilità della p.a. derivante da illegittima attività provvedimentale, lesiva di interesse legittimo.
Il tema non è meramente teorico, in quanto ricco di implicazioni sul piano della diversità di disciplina da applicare, di situazioni tutelabili, di onere probatorio, di termini prescrizionali.
Le più rilevanti divergenze conseguono all’opzione per la natura aquiliana o contrattuale.
Secondo la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie la responsabilità della p.a. è di natura extracontrattuale di cui all’art. 2043 cc., clausola generale con la quale si sanziona la violazione del principio del neminem laedere con un obbligo risarcitorio.
Le Sezioni Unite di Cassazione con la sentenza n.500/99 si sono espresse nel senso predetto e hanno fatto derivare che il meccanismo risarcitorio presuppone il previo e indefettibile accertamento giudiziale della spettanza del bene. Toccherà al privato dimostrare la sussistenza dei presupposti fondanti l’art. 2043 c.c.., ossia l’evento dannoso, che il danno è ingiusto in quanto lesivo di un interesse rilevante per l’ordinamento, il profilo causale, il dolo o la colpa della p.a..
Non sono mancate critiche alla superiore tesi. Infatti, si è obiettato che il privato leso e la p.a. non sono estranei ma parti di un procedimento. Difetterebbe l’elemento caratterizzante della responsabilità extracontrattuale, dunque, l’estraneità tra danneggiato e danneggiante, in quanto vi sarebbe un contatto qualificato, perciò la responsabilità de qua è parsa assimilabile a quella di tipo contrattuale.
Il rapporto che si instaura è stato accostato a un rapporto senza obbligo primario di prestazione, secondo una dicitura civilistica, nel quale manca la prestazione ma sono presenti obblighi di protezione della sfera giuridica di controparte. Questi troverebbero la loro fonte nell’art. 1173 cc, che sancisce il carattere aperto delle fonti delle obbligazioni.
Il diverso regime applicabile seguendo l’orientamento in parola sarebbe più favorevole al danneggiato e per questo parte della dottrina e della giurisprudenza hanno tentato di avallarlo.
In termini di elemento soggettivo, sarà il debitore a provare l’assenza di colpa. Il termine prescrizionale sarà di dieci anni e non cinque; il danno risarcibile sarà quello che poteva prevedersi al tempo in cui è sorta l’obbligazione ex art. 1225 cc..
L’implicazione più dirompente attiene all’accertamento della spettanza del bene, il quale non sarà necessario aderendo alla ricostruzione in senso contrattuale della responsabilità della p.a..
Questa attribuisce rilevanza ai fini risarcitori all’interesse del privato che matura nel rapporto con l’amministrazione, alla lesione dell’affidamento obiettivo ingenerato in una parte dal comportamento della p.a.. E’ questa relazione che genera obblighi il cui inadempimento comporta un autonomo titolo dell’obbligazione risarcitoria.
Di spessore i rilievi critici opposti. In primis, si riconoscerebbe tutela anche a meri interessi procedimentali, atteso che si prescinde dalla lesione del bene della vita. Si ristorerebbero anche i casi in cui non vi è una concreta lesione a una utilità del privato. Si recupererebbe la concezione dell’interesse legittimo quale pretesa alla legittimità dell’azione amministrativa, da tempo ripudiata.
Non manca chi configura quella in discorso quale responsabilità sui generis, caratterizzata da un illecito qualificato dall’illegittimo esercizio del potere autoritativo.
La responsabilità della p.a. parteciperà di volta in volta delle peculiarità proprie della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.
Questo isolato indirizzo postula quali condizioni per la ristorabilità l’accertamento del menzionato illegittimo esercizio del potere autoritativo, dell’eventuale concorso di colpa in capo ai soggetti coinvolti. Affida al giudice la determinazione dell’an e del quantum della domanda risarcitoria.
In realtà solo apparentemente si discosta dalla struttura della responsabilità aquiliana, in quanto richiede gli stessi requisiti dell’art. 2043 cc e riserva eccessivi spazi di azione all’opera creativa della giurisprudenza.
Permane una fragilità di fondo: afferma pleonasticamente la specialità della natura della responsabilità della p.a., ma la riconduce essenzialmente ai due modelli maggiori e tipizzati nel nostro ordinamento.
Secondo un’ultima impostazione la responsabilità della p.a. andrebbe qualificata come precontrattuale ai sensi dell’art. 1337 cc.. Il rapporto tra amministrazione e privato sarebbe simile a quello intercorrente tra le parti durante le trattative per la stipulazione di un contratto, sul quale il privato fa legittimo affidamento. Da qui l’obbligo per entrambe di comportarsi secondo buona fede.
Invero, neppure questo orientamento appare meritevole di essere seguito. Ontologicamente è differente il giudizio di riprovevolezza della violazione di canoni privatistici di correttezza e buona fede rispetto all’abuso di poteri pubblicistici di una cattiva autorità.
Dunque, appare preferibile la prima tesi delineata, quella sulla natura extracontrattuale della responsabilità della p.a..
L’art. 30 cpa non la qualifica espressamente in tal senso, ma fa riferimento all’art. 2043 cc. Il modello aquiliano è più coerente ai caratteri della condotta della p.a. e alle relative esigenze di tutela del cittadino. Non rileva tanto la violazione delle regole di correttezza o di condotta, ma di norme imperative e di principi generali posti a tutela di interessi pubblici, prima che del singolo rapporto. Prima delle regole specifiche di questo pesa la violazione del precetto generale e assoluto del neminem laedere.
L’adesione al modello aquiliano restituisce centralità al giudizio sulla spettanza del bene, indispensabile a partire dalla sentenza n.500/99, al fine di escludere la risarcibilità di interessi meramente procedimentali.
Dunque, gli elementi costitutivi oggettivi della responsabilità della p.a. per attività provvedimentale sono la condotta antigiuridica, il danno ingiusto derivatone, e il nesso causale tra questi. Sono elementi strettamente collegati e devono sussistere tutti.
Le condotte antigiuridiche in grado di determinare la lesione di interesse legittimo, oppositivo o pretensivo, sono molteplici potendo consistere in un’azione, come l’adozione di un atto illegittimo, o in una omissione, come la mancata conclusione di un procedimento nei termini previsti. Tutte si inseriscono in un’attività di tipo autoritativo della p.a..
L’interesse legittimo oppositivo si sostanzia nell’interesse del privato alla conservazione del bene o della situazione di vantaggio oggetto di un provvedimento amministrativo. L’ingiustizia del danno, perciò, si ricollega alla indebita compressione di una pregressa situazione di vantaggio, dovuta all’illegittimo esercizio del potere ad opera della p.a..
Il risarcimento da chance si inserisce, invece, nella species del danno da lesione di interessi pretensivi, i quali esprimono l’interesse, appunto, del privato ad ottenere il bene della vita che è oggetto del provvedimento amministrativo. Il danno può derivare sia da un diniego illegittimo del provvedimento favorevole che dal ritardo ingiustificato nell’adozione di questo.
Il collegamento con il bene della vita è meno automatico e richiede una valutazione più complessa.
Le Sezioni Unite del 1999 richiedono un giudizio prognostico sulla spettanza del prefato bene. Non basta l’illegittimità solo formale del provvedimento né il semplice affidamento nella correttezza dell’attività amministrativa.
Il danno ingiusto si configura laddove secondo la disciplina applicabile e in virtù di un criterio di normalità una situazione suscita nel privato un oggettivo affidamento circa la conclusione positivo-ampliativa della sua sfera giuridica.
Appare fondamentale distinguere a seconda della tipologia di attività amministrativa svolta dal cui concreto esercizio dipende il conseguimento del bene della vita, in quanto il giudizio prognostico pone problemi differenti e si atteggia in modo differenziato se l’attività predetta ha natura vincolata, tecnico-discrezionale o discrezionale pura.
Nel primo caso, il giudice non corre il rischio di sostituirsi alla p.a., in quanto deve riscontrare la sussistenza dei presupposti di legge e stabilire che in quella data situazione l’amministrazione avrebbe dovuto adottare quella certa determinazione.
Il rischio di interferenza si palesa laddove residuino margini di discrezionalità sia pure tecnica, poiché alla stessa sono rimesse valutazioni di fatti e situazioni applicando regole specialistiche che non garantiscono risultati univoci e obiettivi.
La problematica risarcitoria si interseca con la sindacabilità giurisdizionale della discrezionale tecnica amministrativa. Un primo orientamento consente al giudice del risarcimento di valutare la fondatezza della pretesa del ricorrente. La detta sostituzione avrebbe rilievo solo ai fini della definizione della domanda risarcitoria, senza incidere sulla concreta attività amministrativa.
Un secondo orientamento opta per una valutazione prognostica della chance, cioè dell’astratta possibilità di conseguire il bene della vita.
Ed è proprio questa tecnica quella preferita laddove la discrezionalità amministrativa è pura. Il giudizio prognostico andrà, dunque, effettuato tenendo conto delle possibilità di realizzazione dell’interesse materiale del privato, riconoscendo il risarcimento allorchè si dimostri di aver avuto serie chance di conseguire il bene sperato.
Il danno correlato presuppone una rilevante probabilità di un esito favorevole, anche solo probabile, se non almeno pari al 50% delle probabilità di successo, secondo gli indirizzi più restrittivi.
Connotato intrinseco della chance è l’indimostrabilità della futura concreta realizzazione del risultato utile. Infatti, secondo la recentissima giurisprudenza del Consiglio di Stato, la richiesta di risarcimento del danno da lucro cessante presuppone la prova specifica di aver perduto un reddito con ragionevole certezza; mentre il risarcimento da perdita di chance presuppone l’impossibilità di poter affermare che se non fosse intervenuto un dato comportamento illecito, il vantaggio economico si sarebbe realizzato con certezza.
Sono emerse due opposte concezioni in merito alla qualificazione della chance. Una prima la ricostruisce come bene giuridico già presente nel patrimonio del soggetto richiedente, la cui lesione può essere valutata in termini di danno emergente. Il risarcimento prescinderà da valutazioni probabilistiche sull’esito della gara, ad esempio. Il solo fatto che il ricorrente avrebbe potuto conseguire quel bene della vita, fa sorgere l’obbligazione risarcitoria.
Una seconda afferisce ad un diritto non ancora presente ma potenzialmente raggiungibile, con elevato grado di probabilità, pari almeno al 50%. Questo elemento è imprescindibile, e laddove il ricorrente non riesca a provarlo non avrà diritto ad alcun tipo di risarcimento.
La tutela risarcitoria è uno strumento ulteriore che si aggiunge a quello classico demolitorio- conformativo. La concentrazione in capo al giudice amministrativo dei predetti assicura piena ed effettiva tutela agli interessi legittimi oppositivi e pretensivi.
Le due forme riparatorie sono il risarcimento per equivalente e la reintegrazione in forma specifica. Hanno entrambe natura risarcitoria e sono figure alternative, nel senso che spetta al danneggiato optare per la modalità più adeguata. La regola della alternatività non ne impedisce la complementarietà laddove il pregiudizio economico non sia riparabile in forma specifica.
Tali rimedi, quindi, sono previsti anche in ambito amministrativo come ai sensi dell’art. 30 cpa., il quale rinvia all’art. 2058 cc in tema di risarcimento in forma specifica.
Ai sensi dell’art. 7, co.5, cpa, nelle materie di giurisdizione esclusiva il giudice amministrativo conosce pure ai fini risarcitori delle controversie nelle quali si faccia questione di diritti soggettivi.
Al comma precedente vengono attributi alla giurisdizione generale di legittimità le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle p.a. comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma.
La reintegrazione in forma specifica configura una nuova azione di condanna atipica, ristabilisce la situazione giuridica esistente al momento in cui si è verificato il danno, attribuendo al danneggiato la stessa utilità giuridico-economica lesa dalla condotta illecita, e non un ristoro monetario.
Postula la possibilità materiale e giuridica del ripristino dello status quo ante e la non eccessiva onerosità dello stesso per il debitore.
Il risarcimento della chance è una tematica particolarmente viva in materia di appalti, quando si contesti l’illegittima esclusione da una gara o l’illegittima aggiudicazione a favore di un altro contraente, nell’ipotesi in cui il ricorrente non riesca a dimostrare l’esito certo di un risultato positivo.
La forma del risarcimento applicata generalmente nel caso de quo è quella per equivalente, la quale attribuisce al danneggiato un’utilità solo equivalente a quella compromessa dalla condotta illecita della p.a..
Secondo l’art. 1223 cc, norma generale in materia di quantificazione del danno, le due componenti dello stesso sono il danno emergente ed il lucro cessante in quanto conseguenza immediata e diretta dell’illecito, o effetto normale dell’inadempimento. Per opera del rinvio all’art. 2056 cc il principio dell’integrale riparazione si applica anche in materia di illecito aquiliano.
Per la quantificazione del danno subito sofferto dall’impresa partecipante ad una gara si deve ricorrere alla liquidazione percentuale secondo la tecnica del danno da perdita di chance, consistente nella vanificazione della possibilità di conseguire un risultato utile. La risarcibilità è dunque conseguenza del verificarsi di un danno emergente da perdita di possibilità attuale e non futura di un risultato utile.
L’originario art. 245 quinquies del codice dei contratti pubblici configurava la spettanza dell’aggiudicazione quale presupposto indefettibile per la risarcibilità dei danni patiti, escludendo voci di danno come la perdita di chance.
Questo, dunque, non era suscettibile di risarcimento per equivalente ai sensi della normativa predetta, e ciò in contrasto con il diritto europeo.
Fortemente criticato dalla dottrina, sospettato di contrasto con gli artt. 24 e 113 Cost., il contenuto della norma è stato ripreso e modificato dall’art. 124 cpa. Non è più necessaria la domanda risarcitoria contenuta nel ricorso o nei motivi aggiunti. È scomparso anche il riferimento all’”avente titolo”. Tuttavia, si ritiene che il giudice non possa liquidare il danno di ufficio, e ciò in ossequio ai principi del processo amministrativo, che è comunque su istanza di parte.
Inoltre, viene chiarito che il danno deve essere subito e provato dal ricorrente. Nel caso di danno da perdita di chance basterà dimostrare con il dovuto rigore che l’offerta del ricorrente sarebbe stata selezionata come la migliore e che quindi l’appalto sarebbe stato aggiudicato con elevato grado di probabilità. Tuttavia la somma conseguibile a titolo di ristoro sarà di gran lunga inferiore rispetto a quella lucrabile con la dimostrazione di aver diritto all’aggiudicazione.
Dunque, il danno da perdita di chance può essere risarcito quando l’interessato, oltre a provare l’illegittimità della procedura, dimostri una non trascurabile probabilità di conseguire il risultato utile, ossia l’aggiudicazione in tema di appalti, in quanto titolare non di mera aspettativa ma di un oggettivo affidamento.
L’orientamento più rigoroso è quello prevalente; postula che il danno per essere risarcibile deve essere certo e non meramente probabile, o comunque con una rilevante probabilità del risultato utile. Ciò distingue la chance risarcibile dalla mera astratta possibilità di successo, che costituisce aspettativa di fatto, non risarcibile.
È stato ribadito di recente dal Consiglio di Stato la necessità di distinguere la possibilità di riuscita dalla possibilità di conseguire l’utilità sperata, da ritenersi irrisarcibile, in quanto è indefettibile l’accertamento del presupposti della certezza dello stesso danno. Si dovrà per converso escluderlo nel caso in cui l’atto, ancorchè illegittimo, abbia determinato solo la perdita di una mera e ipotetica eventualità di conseguimento del bene della vita.
Pertanto, il ricorrente ha l’onere di provare gli elementi utili a dimostrare, pur in modo presuntivo e basandosi sul calcolo delle probabilità, la possibilità concreta che egli avrebbe potuto conseguire il risultato sperato.
La difficoltà di quantificazione del danno conseguente all’attività amministrativa apre la strada a un massiccio ricorso alla tecnica equitativa di liquidazione ex art. 1226 cc. , richiamato dall’art. 2056 cc. L’art. 1226 cc. presuppone che risulti comprovata l’esistenza di un danno risarcibile, nel caso che ci occupa la possibilità concreta di ottenere un risultato favorevole; il che a sua volta presuppone una probabilità di successo almeno pari al 50%. Diversamente diventerebbero risarcibili anche mere possibilità di successo, statisticamente non significative.
Inoltre, è necessario che il danneggiato provi anche in via presuntiva, ma sulla base di circostanze di fatto certe e puntualmente allegate, la sussistenza di un valido nesso causale tra la condotta lesiva e la ragionevole probabilità del conseguimento del vantaggio perduto. Deve, altresì, dimostrare in concreto i presupposti e le condizioni del raggiungimento del risultato sperato e impedito. Il danno patito e risarcibile deve configurarsi come conseguenza immediata e diretta della condotta illecita della p.a..
Infine, si è ritenuto applicabile in tema di danno da perdita di chance anche il risarcimento in forma specifica. Le condizioni di ammissibilità, come anticipato, sono dettate dall’art. 2058 cc. al quale fa rinvio l’art. 30, co. II, cpa.; consistono nella possibilità giuridica e materiale del ripristino e nella non eccessiva onerosità per il debitore.
Per gli interessi legittimi oppositivi si ritiene generalmente ammessa e forma residuale di reintegrazione residuale, che opera laddove non sia stata conseguita una integrale tutela attraverso l’azione di annullamento dell’atto illegittimo. Nel caso di interessi legittimi pretensivi, quali correlati al danno da perdita di chance, la tesi prevalente ritiene che il giudice possa condannare la p.a. all’adozione di un provvedimento, in questo caso connesso alla riedizione della gara.
L’impresa, quindi, potrà essere rimessa in condizioni di giocarsi le stesse possibilità di aggiudicazione che aveva prima che la stazione appaltante espletasse illegittimamente la procedura. Grazie alla pronuncia del giudice, annullata l’aggiudicazione sarà ordinato alla p.a. la riedizione della gara.
La possibilità di reintegrare direttamente la posizione soggettiva compromessa preclude al giudice di condannare la menzionata stazione appaltante al risarcimento per equivalente del danno da perdita di chance. Sarà salvo il risarcimento per le spese inutilmente sopportate per partecipare alla procedura posta nel nulla.
Diversamente, si correrebbe il rischio che il ricorrente si avvantaggi due volte: con l’aggiudicazione a seguito di rinnovazione della gara e con l’equivalente monetario.
In conclusione, il risarcimento della chance, quale danno a un interesse legittimo pretensivo, è ormai pacificamente ammesso e praticabile sia nella modalità della reintegrazione in forma specifica che per equivalente, con i rigidi oneri probatori sopra illustrati.
Non è trasmissibile agli eredi né ulteriormente per atto inter vivos.