Fondamento normativo e incidenza della clausola di buona fede sul rapporto obbligatorio
La locuzione “buona fede” compare in numerose norme del codice civile, e designa una pluralità di istituti connotati da una diversa ratio legis e da una eterogeneità di significati. Per questo appare impraticabile operare una ricostruzione unitaria ed onnicomprensiva.
Tuttavia, ormai concordemente si procede a tracciare una summa divisio tra la buona fede in senso oggettivo e quella in senso soggettivo. La prima è regola di condotta, la seconda è uno stato soggettivo, appunto, della coscienza.
Nell’accezione soggettiva si atteggia a convinzione erronea di agire in conformità del diritto, o ad ignoranza di ledere un diritto altrui, o a porre affidamento in una situazione giuridica apparente, ma difforme da quella reale.
L’effetto giuridico che si collega a detta tipologia di buona fede consiste nella conservazione della situazione stessa o degli effetti giuridici stessi nei quali si era confidato, o nella limitazione o esclusione di quelli negativi.
L’art. 128 c.c., per esempio, preserva gli effetti del matrimonio dichiarato nullo, qualora i coniugi lo abbiano contratto in buona fede. L’art. 1153 c.c. riconosce a certe condizioni l’acquisto della proprietà a non domino. L’art. 1189 c.c. sancisce la liberazione del debitore che in buona fede paghi al creditore apparente.
Nell’ambito, più unitario della accezione soggettiva, della buona fede in senso oggettivo si inscrivono espressamente diverse norme: l’art. 1375 c.c., con riguardo all’attuazione del rapporto obbligatorio tra creditore e debitore; l’art. 1358 c.c. che assume la buona fede quale regola di comportamento dei contraenti in pendenza di condizione, nell’art. 1460, co. II, che individua la buona fede quale criterio per l’esercizio legittimo della facoltà di rifiutare l’adempimento in ragione dell’inadempimento altrui.
Le predette rappresentano ipotesi nelle quali la buona fede è sinonimo di correttezza, non dunque di uno status soggettivo, la cui violazione è fonte di responsabilità lato sensu contrattuale ex art. 1218. C.c..
Se nel codice del 1865 una unica disposizione esauriva il concetto di buona fede, nel codice del 1942 la detta ha assunto una funzione interpretativa, è diventata regola autonoma di esecuzione del contratto, fonte non contrattuale di rapporti obbligatori.
Il legislatore del 1942 ha imposto ai soggetti dell’obbligazione un comportamento reciproco improntato sulla scorta dei canoni di lealtà e probità, al fine di soddisfare i propri interessi e la superiore finalità di uno spostamento di ricchezza conforme a giustizia.
Riconoscendole grande duttilità ed elasticità, sulla scorta della cultura civilistica tedesca, è diventata una clausola generale nei rapporti interprivati con grandi potenzialità applicative.
Fondante il richiamo della buona fede ai valori costituzionali espressi dall’art. 2 Cost, al principio di solidarietà che connota la stessa buona fede di una valenza politico-sociale dagli ampi confini.
Dunque, correttezza e buona fede rappresentano due aspetti della medesima clausola generale, che oscilla tra concezione valutativa e concezione precettiva.
In base alla prima teoria la regola attiene solo alla fase dinamica del rapporto obbligatorio, opera dopo che lo stesso è sorto, e si atteggia a criterio valutativo di secondo grado che consente al giudice di verificare ex post il comportamento delle parti.
La giurisprudenza che applicava il superiore orientamento, oggi del tutto superato, considerava la buona fede una regola sub primaria, destinata ad operare solo laddove non vi fossero norme specifiche.
La concezione precettiva, invece, ritiene che la buona fede sia di rango primario, e che determini a priori le modificazioni del regolamento iniziale tramite specifici obblighi, assistiti da autonome azioni di adempimento, risarcitorie, inibitorie.
La buona fede è, dunque, un principio cardine delle relazioni contrattuali.
L’evoluzione della stessa le assegna addirittura il ruolo di fonte di obbligazione, ossia di specifici ed ulteriori obblighi, non pattuiti tra le parti, come la modifica di un comportamento durante l’esecuzione del contratto, la tolleranza rispetto a modifiche che sostanzialmente non alterano l’utilità del contratto stesso, o il corretto esercizio di poteri discrezionali.
E ciò si riverbera anche sul piano dei rimedi esperibili a fronte della violazione del dovere di buona fede, come il risarcimento del danno e l’exceptio doli generalis.
Teoria non seguita né dalla dottrina né dalla giurisprudenza prevalenti assegna alla buona fede il ruolo di regola di validità del contratto, il quale oltre a non presentare vizi formali, dovrà anche produrre un risultato giusto, equo. E ciò sulla scorta del combinato disposto degli artt. 1175 e 1322 c.c. e 2 Cost.; pena la nullità virtuale sanzionata dall’art. 1418, I co., cc.
La buona fede come regola precettiva, quindi, è il referente normativo dei cd obblighi di protezione, dei quali ovviamente non esiste una definizione legislativa, né una norma che vi faccia espresso riferimento.
Nemmeno dalle pronunce giurisprudenziali o dalle trattazioni dottrinarie è possibile ricavare una definizione univoca. Il contenuto può, tuttavia, essere individuato nel generale dovere di salvaguardare la sfera giuridica dei soggetti con i quali si entra in contatto, quindi anche al di là di un rapporto contrattuale, al fine di evitare di causare agli stessi un pregiudizio.
Gli obblighi di protezione, dunque, nella concezione tedesca, seguita dalla dottrina e dalla giurisprudenza italiana, superando la lineare concezione dello schema creditore-debitore, si inseriscono tra le fonti di responsabilità aquiliana e contrattuale, colmando i vuoti di tutela che la netta contrapposizione delle due crea a sfavore del danneggiato.
Essi si risolvono in un non facere, ovvero non arrecare pregiudizio, che si esplicita meglio in un facere cum diligentia.
Matrice comune rispetto agli obblighi di protezione presenta il divieto di abuso del diritto, tanto per il fondamento che per il contenuto. Entrambi, infatti trovano il loro referente costituzionale nell’art. 2 della Carta fondamentale, che sancisce il dovere inderogabile di solidarietà. Il loro contenuto, inoltre, si esplica nella privazione di tutela giuridica o in sanzioni, qualora la condotta di un soggetto del rapporto o del contatto, che seppur privo di fonte contrattuale è comunque idoneo a produrre obbligazioni ai sensi dell’art.1173 c.c., risulti pregiudizievole nei confronti del suo “prossimo”.
Quanto alle declinazioni pretorie del principio di buona fede, l’incidenza dello stesso nel rapporto obbligatorio si manifesta per esempio, allorquando la banca rifiuti senza ragione, dunque in violazione della buona fede, di accettare la consegna di un assegno circolare, per estinguere una obbligazione pecuniaria, in luogo del denaro.
Le SS.UU. hanno evidenziato come l’art. 1277 c.c. non riguardi le modalità di pagamento ma il sistema valutario nazionale. La moderna concezione del denaro lo rappresenta quale ideal unit, pertanto un’interpretazione adeguatrice della detta norma pone l’accento sul fatto che oggetto del pagamento non è la moneta in quanto tale, ma il suo valore, il quantum debeatur. E l’assegno circolare, che nella disciplina bancaria è un titolo di credito di sicuro realizzo, non configura una dazione in luogo del pagamento ex art. 1197 cc.
Il rifiuto della banca appare ingiustificato e dunque contrario a buona fede e correttezza in senso oggettivo se non emerge un apprezzabile interesse alla ricezione dei contanti.
Il diritto all’informazione è uno pilastri a presidio degli interessi dei consumatori, poiché l’assenza di notizie incide ed è all’origine di squilibri ed ingiustizie negoziali.
Sia in fase di trattative che di esecuzione del contratto, gli obblighi di informazione trovano la loro ratio fondante nella buona fede, poiché tutelano l’affidamento specifico di un soggetto nel comportamento corretto di controparte. Consentono al consumatore di acquisire gli elementi necessari ai fini di una corretta valutazione sull’an contrarre e con quale contenuto.
Pertanto, l’omissione di informazione può dare luogo anche all’annullamento del contratto qualora il contraente venga tratto in errore. In fase esecutiva, invece, può essere da presupposto alla tutela risarcitoria, e se l’inadempimento non è di scarsa importanza, anche alla risoluzione del contratto.
L’orientamento moderno, come argomentato sopra, tende a collegare la tematica della buona fede a quella dell’abuso del diritto, la quale cerca di stabilire un limite alla pretese ed ai poteri del titolare del diritto.
La giurisprudenza italiana e comunitaria ritengono che la titolarità di un diritto, appunto, non sia incondizionata e scollegata dallo scopo per il quale quel diritto è stato riconosciuto dall’ordinamento.
Sempre alla luce del principio di solidarietà espresso dalla nostra Costituzione e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la buona fede è un criterio per valutare la condotta delle parti ma funge anche da limite alle richieste ed ai poteri del titolare del diritto.
È ormai pacifico che la buona fede è fonte integrativa degli effetti degli atti di autonomia privata, integra o restringe gli obblighi delle parti o derivanti da specifiche norme di legge.
Se un orientamento risalente afferma che l’uso anormale, ossia l’abuso, del diritto si configuri solo nei casi previsti dalla legge, quello più recente lo intende come categoria generale nella quale un diritto cessa di ricevere tutela poiché esercitato fuori dai limiti stabiliti dalla legge.
La fonte normativa del superiore divieto risiede nell’art. 833 cc, sugli atti emulativi, appunto vietati se non hanno altro scopo che nuocere o recar molestia ad altri.
La norma rientra in una serie corposa di disposizioni che prevede espressi divieti per il proprietario di esercitare proprie facoltà o poteri in danno o pregiudizio altrui, come per esempio la minaccia di far valere un diritto ex art. 1438 cc ed il divieto di concorrenza sleale ex art. 2598 cc.
Particolare attenzione ha destato la tematica del frazionamento del credito in funzione di una prestazione originariamente unica, ma che il creditore sta richiedendo in via giudiziale in maniera appunto frazionata.
Se un primo orientamento taccia il comportamento del creditore come abusivo, in quanto prolunga illegittimamente il vincolo coattivo e moltiplica le spese e gli oneri di giustizia; altra parte della giurisprudenza lo assolve come rientrante nelle facoltà del creditore stesso.
Le SS.UU., intervenute in prima battuta, hanno sancito l’inammissibilità di una richiesta frazionata della tutela giudiziale del credito, qualificando abusivo il comportamento di chi senza una ragione fondante e senza un interesse concreto artatamente frazioni in giudizio le proprie pretese.
Tuttavia, nel 2017 hanno aperto al possibile frazionamento del credito solo in presenza di un interesse creditorio oggettivamente valutabile.
Anche in ambito comunitario ritroviamo riconosciuto il fenomeno di abuso del diritto, allorquando lo scopo essenziale, e non unico, della parte sia quello di conseguire vantaggi fiscali. Le pronunce della Corte di Giustizia hanno delineato una nozione di abuso del diritto autonoma rispetto al concetto di frode, e sulla scorta di detto orientamento comunitario la dottrina italiana ha individuato tre presupposti dell’abuso: l’elemento oggettivo, ossia l’aggirare la norma italiana facendo ricorso a libertà riconosciute a livello comunitario; l’elemento soggettivo, ossia la consapevolezza dell’abusività della propria condotta; l’aspetto teleologico, ossia la coerenza del comportamento alla ratio della norma comunitaria.
Tematica di stretta attualità è sicuramente la cd concessione abusiva del credito da parte di una banca a favore una impresa in grave situazione di dissesto, nota alla menzionata banca, e che non poteva non essere pronosticata dalla stessa.
Non si postula la necessaria presenza dell’evento fallimento, ma la contrarietà ai canoni di buona fede e correttezza nella valutazione della capacità di recupero della società non in bonis.
Orbene, concedere liquidità a soggetti che versano in crisi irreversibile genera molteplici conseguenze negative: al mercato, agli altri operatori economici, ai competitor che potrebbero scegliere di estraniarsi dal mercato stesso, ai creditori della società.
Di natura aquiliana la responsabilità nei confronti di detti soggetti; contrattuale nell’ipotesi di danno al patrimonio sociale.
I rimedi esperibili, dunque, consisteranno nell’azione risarcitoria ex art. 2043 cc, al fine di reintegrare il patrimonio del singolo creditore, ed ex art. 2395 cc.
Per i danni cagionati al patrimonio societario si potrà esperire l’azione di responsabilità contrattuale, la cui legittimazione spetterà al curatore fallimentare in caso di successivo fallimento.
Altra manifestazione di abuso del diritto è la figura dell’abuso della personalità giuridica, nella quale una o più persone fisiche utilizzano lo schermo societario ed i suoi innegabilità vantaggi a livello di responsabilità limitata, per coprire un’attività di impresa essenzialmente individuale. Dunque, a fronte di detta fictio iuris si procederà a livello di rimedio con la disapplicazione delle norme attributive dei prefati benefici, ripristinando una responsabilità illimitata in capo ai singoli soci e la loro personale soggezione al fallimento della persona giuridica.
Il comportamento sleale e l’uso distorto di chi abusa della dipendenza economica di un altro operatore, imponendo allo stesso condizioni visibilmente svantaggiose per esempio, o forti squilibri contrattuali, sarà, invece ,sanzionato con la nullità del patto stesso ai sensi della legge sulla subfornitura nelle attività produttive, ossia la n.192/1998. Non mancano, quindi, regolamentazioni extracodicstiche sull’abuso del diritto.
Infine, anche la normativa comunitaria sanziona lo sfruttamento abusivo della posizione dominante, ossia di chi con il proprio comportamento commerciale altera il normale svolgersi della concorrenza, ostacolandola con mezzi diversi, influendo sulla struttura del mercato, sugli equilibri naturali dello stesso, delle altre imprese e degli stessi consumatori.
L’art. 102 del TFU, infatti,espressamente vieta l’uso di posizione dominante tout court al fine di tutelare il normale funzionamento del mercato.
Dunque, il concetto di abuso del diritto evoca quello di ingiustizia, foriero di responsabilità civile, poiché l’ordinamento non lo può tollerare, non può ammettere uno scopo non meritevole di tutela, laddove l’esercizio individuale ed egoistico di un diritto non tiene conto del sacrificio altrui.
Quindi, il giudice dovrà ristabilire la normalità dell’atto di autonomia per verificarne l’eventuale abusività.
Non vi sono risposte univoche, ma sovente risposte sanzionatorie specifiche approntate dal legislatore, come le decadenze ex art. 330 cc sulla responsabilità genitoriale. Oltre ai rimedi risarcitori, saranno praticabili l’inopponibilità e l’inefficacia dell’atto abusivo.
Il fine è neutralizzare ogni singolo abuso, correggerne la distorsione, tentando ove possibile di mantenere in vita l’atto stesso.