Arma autorizzata per solo uso sportivo
L’autorizzazione “sportiva” non rende legittimo il porto della stessa ove effettuato per finalità diverse da quella consentita dal provvedimento amministrativo, atteso che nel nostro ordinamento il porto di armi è in generale vietato ed il rilascio della licenza si atteggia a fatto costitutivo del diritto di portare un’arma fuori dalla propria abitazione, esclusivamente in relazione agli scopi per i quali detto diritto è riconosciuto (cfr. da ultimo Corte di Cassazione n. 28320/2019) .
Il porto d’armi non costituisce un diritto ma un’eccezione al divieto sancito dalla legge (artt. 699 c.p., e 4 comma 1, l. 18 aprile 1975 n. 110); la superiore eccezione opera qualora esista la sicurezza che l’agente ne facciano buon uso, in modo da tutelare l’ordine pubblico e garantire la pacifica convivenza della restante massa dei consociati, che si è adeguata alla regola generale.
Dunque, il rilascio della licenza a portare le armi non costituisce una mera autorizzazione di polizia che rimuove il limite ad una situazione giuridica già facente parte della sfera del privato, ma assume contenuto permissivo in deroga al generale divieto di portare armi sancito dalle norme sopramenzionate, sicché, in tale quadro, il controllo effettuato dall’Autorità Pubblica assume connotazioni pregnanti e l’autorizzazione può intervenire soltanto in presenza di condizioni di sicurezza.
Anche secondo la giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, Sez. III, 22/08/2018, n. 5015), l’autorizzazione a detenere armi assume contenuto di permesso concessorio in deroga al divieto generale e soltanto per gli scopi previsti dalla legge: come la difesa personale, il tiro a volo (id est l’uso sportivo) e la caccia, ossia l’uso venatorio; ciò, a prevenzione di ogni possibile vulnus all’incolumità di terzi, derivante dalla circolazione di armi d’offesa.
In quest’ottica, secondo la Corte di Cassazione, non possono considerarsi penalmente irrilevanti le finalità per le quali il titolare della licenza porta l’arma fuori dalla propria abitazione (Cass. Pen. Sez. III, n. 14749/2016, Rv. 266391; Sez. I, n. 8838/2010, Rv. 246379) perchè “non si tratta di dare rilievo alle motivazioni interiori dell’autore della condotta, ma di valutare se quest’ultima sia o non consentita dal provvedimento concessorio che la permette”.
La Corte ha infine dichiarato inammissibili anche gli altri motivi evidenziando come il diniego delle circostanze attenuanti fosse fondato sulla mancanza di elementi positivamente valutabili e come la graduazione della pena rientri nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p.