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Una Società, nostra Cliente da anni, ci ha posto un problema che quotidianamente le si presenta: il suo legale rappresentante viene non di rado chiamato come testimone in processi civili e penali; tuttavia, la sua partecipazione agli stessi determina l’impossibilità per il detto rappresentante di attendere alle proprie attività, con conseguente depauperamento in termini di lucro cessante e danno emergente.
Può opporre un valido e legittimo rifiuto alla comparizione come teste? Può in qualche modo rimanere indenne economicamente dal mancato espletamento della propria attività lavorativa a causa della sua convocazione in udienza?
Entra in gioco un obbligo giuridico di comparire come testimoni, posto nel supremo interesse pubblicistico della corretta amministrazione della Giustizia, e non può essere in alcun modo “monetizzato”, se non con un davvero irrisorio indennizzo disciplinato d.p.r. n.115/2002.
Infatti, l’art. 255 c.p.c. disciplina l’obbligo di comparizione dei testi regolarmente intimati (art. 250 c.p.c.).
Il teste intimato ha il dovere di comparire davanti al giudice.
Occorre, però, distinguere l’assenza giustificata da quella ingiustificata del teste.
Nel primo caso il giudice istruttore ordina, senza necessità di una richiesta di parte, una nuova intimazione e rinvia l’escussione del teste ad una nuova udienza.
Nella seconda ipotesi il giudice adito può ordinare l’accompagnamento del teste all’udienza stessa o ad altra successiva.
L’accompagnamento all’udienza (previsto dal codice di procedura penale negli artt. 144, 429) è una forma di esecuzione coattiva dell’obbligo di comparire ed è la logica conseguenza del carattere pubblicistico del dovere di testimoniare.
L’accompagnamento coattivo si effettua per mezzo dell’uso della forza pubblica che è investita del mandato di utilizzare qualsiasi strumento necessario al fine di raggiungere tale obiettivo.
Se il teste nonostante l’ordine di accompagnamento rifiuta di presentarsi davanti al giudice istruttore viene incriminato di reato di rifiuto di uffici legalmente dovuti previsto nell’art. 366 c.p. .
La L. 28.12.2005, n. 263 ha modificato l’art. 255, 1° co., prevedendo una sanzione più elevata rispetto a quella prevista prima della riforma nell’art. 255 in caso di mancata comparizione del teste senza giustificato motivo. Si è passati così da una sanzione ritenuta irrisoria dalla dottrina (non inferiore a 2 euro e non superiore a 5 euro) ad una più rispettosa al dovere di comparizione del teste. L’art. 255, primo periodo, prevede un sostanziale aumento della pena pecuniaria, passando da una forbice tra 4 e 10 mila lire ad una tra 100 e 1000 euro la cui irrogazione è rimessa al potere discrezionale del giudice.
Il giudice, difatti, ha un potere discrezionale sia per ordinare o una nuova intimazione ad altra udienza del teste o per l’accompagnamento coattivo alla stessa o ad altra udienza.
In questi casi il giudice ha un potere discrezionale di condannare il testimone al pagamento di una pena pecuniaria non inferiore a 100 euro e non superiore a 1.000 euro.
Requisito necessario per l’irrogazione della sanzione in oggetto è che la mancata comparizione avvenga «senza giustificato motivo». Un altro requisito indispensabile è enunciato dall’art. 106 disp. att., il quale richiede che i provvedimenti di cui all’art. 255, 1° co., possano essere pronunciati «contro il testimone non comparso dopo che è decorsa un’ora da quella indicata per la comparizione».
L’art. 46, 7° co., L. 18.6.2009, n. 69 ha, poi, aggiunto il periodo che disciplina che in caso di ulteriore mancata comparizione senza giustificato motivo, il giudice dispone l’accompagnamento del testimone all’udienza stessa o ad altra successiva e lo condanna a una pena pecuniaria non inferiore a 200 euro e non superiore a 1.000 euro.
Il legislatore del 2009 con tale aggiunta non fa altro che rafforzare le misure dirette a sanzionare la mancata comparizione del testimone intimato, costituendo un ulteriore strumento di pressione indiretta sul testimone stesso volto a favorirne la comparizione.
Il legislatore del 2009 ispirato all’abbreviazione della durata del processo per rendere quest’ultimo più celere, ha introdotto il secondo periodo dell’art. 255 che prevede che in caso in cui il teste, regolarmente intimato, non compare per la seconda volta, il giudice è obbligato a disporre l’accompagnamento coattivo del teste alla seconda udienza.
Il giudice è anche obbligato a condannare il teste a una pena pecuniaria non inferiore a 200 euro e non superiore a 1.000 euro.
Ne consegue che, mentre nella mancata comparizione del teste a seguito della prima intimazione disciplinata nell’art. 255, primo periodo, il giudice può condannare il teste al pagamento di una pena pecuniaria, nel secondo periodo dell’art. 255 il giudice deve condannarlo qualora non compare per la seconda volta.
Altra modifica apportata alla norma dell’art. 255 riguarda la possibilità, per il giudice, di condannare il testimone assente e, non più, l’obbligo di condanna. La modifica recepisce la sentenza della C. Cost. 21.3.2002, n. 78, la quale dichiara l’incostituzionalità dell’art. 54, 3° co., nella parte in cui prevede l’obbligo di condanna e non solo la mera possibilità di farlo.
I limiti del minino e del massimo della pena pecuniaria sono stati stabiliti con l’art. 114, L. 24.11.1981, n. 689 che disciplinava un limite di lire quattro mila ed un massimo di lire dieci mila.
Nella prassi dei vari tribunali, la sanzione pecuniaria raramente è applicata ai testi, in quanto si tratta di una sanzione irrisoria.
La Corte Costituzionale ha stabilito che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale – sollevata in riferimento agli artt. 3, 111 Cost. – dell’art. 255, 1° co., nella parte in cui, prevedendo la condanna del testimone intimato e non comparso ad una pena pecuniaria non inferiore a lire quattromila (euro due) e non superiore a lire diecimila (euro cinque), comporterebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra la disciplina prevista dal codice di rito civile rispetto a quella del codice di rito penale per i testi citati e non comparsi e determinerebbe una violazione del principio della ragionevole durata del processo.
Infatti, alla stregua di quanto più volte affermato dalla Corte, vi è piena autonomia del sistema processuale civile rispetto a quello penale e, pertanto, essi non sono comparabili ai fini della violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3.
Inoltre, l’esiguità della sanzione pecuniaria irrogabile al testimone non comparso non è di per sé suscettibile di arrecare un danno al processo, ben potendo il giudice ricorrere anche alle altre misure (nuova intimazione o accompagnamento coattivo del testimone all’udienza stessa o ad altra successiva) previste dalla stessa disposizione impugnata (C. Cost. 28.11.2002, n. 500; C. Cost. 4.2.2000, n. 30).
L’accompagnamento coattivo e la condanna al pagamento di una sanzione pecuniaria vengono disposti dal giudice con ordinanza.
L’art. 106 disp. att. dispone che il giudice istruttore può pronunciare i provvedimenti di condanna contro il testimone non comparso dopo che è decorsa un’ora da quella indicata per la comparizione.
L’art. 255, 2° co., disciplina i casi di esenzione dell’obbligo di comparizione delle parti.
Tra le esenzioni rientrano: l’impossibilità obbiettiva e permanente a comparire (art. 232, 2° co.) ad es., la malattia propria del teste o di stretto congiunto nell’ipotesi in cui questo non abbia un’assistenza idonea in caso di malattia, le esenzioni stabilite dalla legge (artt. 105 disp. att. c.p.c. e 205 c.p.p.) o da convenzioni internazionali (art. 206 c.p.p.).
In caso di obbiettiva impossibilità a comparire la prova testimoniale viene assunta presso l’abitazione o l’ufficio del teste da parte del giudice il quale si reca in tali luoghi e, se questi sono situati fuori della circoscrizione del tribunale delega all’esame il giudice istruttore del luogo (art. 203 c.p.c.).
La dottrina e la giurisprudenza sono concordi nel ritenere che il teste deve fornire la prova del suo impedimento e che la valutazione delle prove da parte del giudice e la delega al giudice istruttore del luogo per l’assunzione della prova è insindacabile in cassazione.
Le esenzioni stabilite dalla legge sono quelle indicate negli artt. 105 disp. att. c.p.c. e 205 c.p.p.
L’art. 105 disp. att. c.p.c. delinea particolari esenzioni riconosciute a favore di una categoria di soggetti dell’obbligo di comparire davanti al giudice per prestare la loro testimonianza.
L’articolo sopra menzionato disciplina che l’esenzione di cui all’art. 255, 2° co., c.p.c. della comparizione dei testimoni davanti al giudice, si applica in ogni caso ai Cardinali e ai Grandi Ufficiali dello Stato. In questo caso è il giudice a doversi recare nell’abitazione o nell’ufficio del teste esentato per legge.
L’art. 205 c.p.p. disciplina invece che sono esenti a comparire davanti al giudice per deporre la loro testimonianza: il Presidente della Repubblica, i Presidenti delle Camere, il Presidente del Consiglio dei Ministri o della Corte costituzionale.
Questi possono chiedere di essere esaminati nella sede in cui esercitano il loro ufficio, al fine di garantire la continuità e la regolarità della funzione cui sono preposti.
L’art. 205 c.p.p. è stato modificato dalla legge di riforma del c.p.p. del 1988 che ha a sua volta riformato l’art. 356 c.p.p., non prevedendo più l’esenzione a favore dei Cardinali e dei Grandi Ufficiali dello Stato la cui categoria è disciplinata nell’art. 4, R.D. 16.12.1927, n. 2210 integrato dalla circolare 26.12.1950 del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Tale modifica ha creato certamente una iniqua diversità di trattamento tra il procedimento civile e penale.